mercoledì 21 dicembre 2011

La (vera) rivoluzione si fa in versi


"Volevo iniziare (lo faccio) «l'armonia vince di mille secoli il silenzio»; volevo dire (e lo scrivo almeno per vezzo provinciale) che la Letteratura italiana è nata con lo Stile Novo, con Cavalcanti. Voglio ricordare che ogni epoca in crisi ha rimesso in moto la potenza della lingua e della visione. Per stare al Foscolo, che non sbaglia mai, il mondo è in perenne affanno, il Trattato di Campoformio è uno smottamento reiterato al quale si reagisce con l'equilibrio, la passione, l'eleganza della Poesia. La «modernità» che ci riguarda pretendo di farla partire dal sonetto foscoliano («Forse perché della fatal quiete/tu sei l'immago, a me sì cara vieni,/o sera!»), proprio perché l'asse portante Ovidio-Petrarca-Leopardi trova nel poeta di Recanati una femminilità ormai da delirio sentimentale (oltre al titanismo plastico, alla figurazione carnosa ed esoterica delle Operette morali), infatti la sua splendida crisi è l'oblio, il salmodiante incespicare del Canto notturno per chiudere la porta in faccia all'eternità. Invece in Foscolo, e prima di lui in Alfieri e Parini, la prova virile, la risposta alla crisi perenne non abbassa mai la guardia. Non cede. Non indietreggia. Nel primo spara dalla culatta di un ego che produce il primo romanzo italiano (Vita); nel secondo l'illuminismo lombardo, ma non giacobino, si scaglia su disonestà e corruzione. In altre parole: nessuna Rivoluzione o Restaurazione si ribellerà quanto la Poesia. È la poesia che traccia i confini; è la poesia che ci stampa addosso il nome che portiamo. Essa ci dà il battesimo, dunque ci crocifigge come individui e uomini che, da soli, debbono cercarsi un posto nel mondo.
Anche sul finire dei Settanta del secolo scorso si riprese con la poesia. Allora l'Italia e il Muro di Berlino chiedevano e offrivano risposte reazionarie e rivoluzionarie. Amelia Rosselli mi diceva: «I poeti debbono rimanere poveri. La povertà è la bussola che non ti fa sbagliare». La vestale, con il padre e lo zio uccisi dai fascisti a Parigi, leggeva al buio, dialogava con i fantasmi, si imponeva il disprezzo per la volgarità, ricordava la timidezza di Pasolini che l'aveva aiutata a pubblicare da Garzanti. Amelia Rosselli spezzava le costole ai versi per renderli pazzi e cenciosi fino a quando, un giorno, volle provare a scriverli sul cornicione del palazzo. Io, foscoliano e manzoniano, dentro di me aggiungevo: bisogna cercare la perfezione nella nostra lingua, il silenzio, la concentrazione totale, il digiuno, la solitudine, l'amore, la sfida, l'orgoglio, la tenacia.
La letteratura di quegli anni era ingessata tra neo avanguardia e impegno politico; la lingua poetica e narrativa era ridotta a slogan. Sì, c'erano le impennate eroico-retoriche di Dario Bellezza, i travasi tra autobiografia narrativa e versi dell'appassionatissimo Renzo Paris, Area di rigore di Valentino Zeichen, le poesie con «zoppìa» di Maurizio Cucchi, il risultato morfinico di Milo De Angelis, il dettato opalinico e rinascimentale di Giovanni Raboni, e poi la grande abbuffata del Festival di Castelporziano (1979) con Franco Cordelli divo timido dietro i suoi occhiali Rainbow con le lenti a goccia verde bottiglia, che non sanciva la pericolosità del poeta «sotto ogni Stato», bensì la morte stessa della poesia. Si era giunti al capolinea.
La lezione dei poeti che serviva ai nuovi non si trovava tra le schiere dei Fortini, dei Sereni (pur poderoso), dei Porta, dei Pagliarani (pur intelligente), piuttosto nei colpi incendiari di Dino Campana («Nella stanza un odor di putredine: c'è/ Nella stanza una piaga rossa languente. / Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto ... Nel cuore della sera c'è, / Sempre una piaga rossa languente»), nelle preghiere del fanciullo straziato di Sergio Corazzini (Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange» va imparata a memoria, come deve essere per Autunno di Cardarelli, per Il conte di Carmagnola di Manzoni). I «nuovi» avevano bisogno delle poesie liguri di Caproni, forse delle atmosfere ferraresi, raffinate e tocche di mente di Luciano Erba. Montale era il poeta di Ossi di seppia, ma anche l'intellettuale fotografato mentre fissa l'upupa imbalsamata. Sono convinto che ai poeti servisse soprattutto l'insostenibile luce di Giuseppe Ungaretti. Insomma pure quegli anni ebbero il loro Trattato di Campoformio. Ormai il linguaggio era ridotto a un vessillo agitato. Dunque la lezione di Pascoli (primo del Novecento, non si dimentichi), l'antilezione di Guido Gozzano (unica e possibile sintesi tra il Vate, l'attesa della morte e il raffinato modernariato), il pentagramma di d'Annunzio dove erano andati a finire? Così alcuni poeti (Salvia, Goroni, Scartaghiande, Del Colle, Antonella Anedda, Giovanna Sicari, Gabriella Sica per la collana del minuscolo editore Rotundo, diretta da Arnaldo Colasanti; mentre Crocetti a Milano faceva da polo per altri ancora più giovani: Antonio Riccardi, Stefano Dal Bianco) ripresero sillaba dopo sillaba a rinnovare la lingua infine pronta e servita ai narratori (sempre «nuovi» i narratori).
Da tempo sono convinto che i poeti e gli scrittori debbano riproporre non un neo romanticismo (ricordo i primi anni Ottanta), bensì il Romanticismo. Senza Manifesti, Progetti, Convegni. Per troppo si è stati persuasi, appunto, che il Romanticismo fosse un archetipo letterario. La post modernità, soprattutto, ne ha fatto un involucro per scriverci sopra la parola «cuore». Invece ogni crisi riparte dalla poesia «romantica». In pieno conflitto tra papato e impero si parte da lì; nel feroce e dorato Rinascimento si parte da lì (Ariosto); le Rime del Tasso ripartono da lì; i tedeschi, gli inglesi, gli italiani per strapparsi di dosso le rovine del neo classicismo ripartono da lì. Quindi, ora che ci sembra di assistere allo schianto di tre quattro imperi contemporaneamente, e di vedere come lo scambio di merci e corpi pare un precipitato apocalittico, è bene osare e dire che la povertà della passione e della sua corte vince non solo quando la ragione è in forma, tocca lo zenit, ma soprattutto quando la crisi divora la cultura, il tempo antropologico delle culture.
Ogni poeta che è sceso nell'Ade è stato romantico (Virgilio su tutti); ogni passione si trascina dietro la miseria (in poesia si trasforma in lusso e sfarzo, vedi Verlaine, Rimbaud, Baudelaire) si porta con sé la forma, la velocità, la semplicità dei linguaggi che nella sinestesia sconvolge ogni interferenza e ci offre la possibilità di scrivere ancora il nostro nome." (da Aurelio Picca, La (vera) rivoluzione si fa in versi, "Corriere della Sera", 21/12/'11)

Si comincia con Szymborska, poi arriva Kavafis
Dal lavorìo riflessivo della Szymborska che «spalanca al nostro sguardo le cose prime e ultime della vita» (la definizione è di Franco Marcoaldi), fino ai «versi liberi modernissimi e vetusti» com'erano i componimenti di Kavafis secondo Marinetti, e così via attraverso Walcott, Neruda, Pessoa, e poi Merini, Pasolini, Luzi e molti altri: la nuova collana del «Corriere», «Un secolo di poesia», curata da Nicola Crocetti, proporrà 30 volumi monografici dedicati ad alcune delle voci più interessanti del Novecento (prima uscita del 27 dicembre 1 euro più il costo del quotidiano, le successive uscite 7,90 euro più il costo del quotidiano). Il primo volume sarà dedicato a Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni, con testo originale a fronte e introduzione e cura di Pietro Marchesani, il grande polonista recentemente scomparso. Il 3 gennaio sarà la volta di Costantino Kavafis, con La memoria e la passione (introduzione e cura di Filippomaria Pontani), seguiranno il 10 gennaio Pablo Neruda con Tra le labbra e la voce (introduzione di Ranieri Polese, a cura di Giuseppe Bellini), il 17 gennaio Fernando Pessoa con Nei giorni di luce perfetta (introduzione di Marco Missiroli, a cura di Paolo Collo), per continuare il 24 gennaio con Derek Walcott (Nelle vene del mare, introduzione di Sergio Perosa, a cura di Matteo Campagnoli), il 31 gennaio con Alda Merini (Il canto ferito, introduzione di Vivian Lamarque, a cura di Nicola Crocetti), il 7 febbraio con Federico García Lorca (Nuda canta la notte, introduzione di Giorgio Montefoschi, a cura di Valerio Nardoni). Ciascun volume conterrà, oltre ad alcune delle poesie più importanti dell'autore (talvolta con componimenti inediti), anche nuove introduzioni. Tra le uscite successive, i volumi dedicati a Pasolini, Prévert, Luzi, Brodskij e numerosi altri. (Ida Bozzi)

martedì 20 dicembre 2011

La poesia cambierà il mondo


"A chi parla la poesia e chi è coinvolto nel suo discorso? Solo l'autore e una ristretta cerchia di lettori? In un famoso discorso, intitolato Il meridiano (1960), Paul Celan osserva: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica». Mario Luzi nel saggio Verso Ragusa, compreso in Naturalezza del poeta (1995), si spinge oltre: «Il poeta nella parte più segreta del suo desiderio tende a non essere più niente se non ciò che di lui è passato o passerà negli altri come sostanza umana, grazia, canto».
Per un paradosso o per una legge più segreta e profonda, quanto più si offre con il suo radicale bisogno di comunione, tanto più la poesia moderna è allontanata, posta e percepita in una distanza. Eppure essa non cessa, da lì, di esporsi, come diceva ancora Celan. C'è una poesia di Giovanni Giudici, compresa in O beatrice (1972), che vale come una squillante affermazione di questo stato, al contempo doloroso e vitale. Si tratta di Alcuni, una sorta di manifesto che, senza nominarla e per metafora, parla anche della poesia e della sua «insania». Vi si legge, nella seconda quartina: «Alcuni in abitazioni private o in asili / psichiatrici ritentano solitari di carte / o calcoli di moto perpetuo o altre / più improbabili imprese come rivoluzioni»; e nelle ultime tre strofe: «Pensando di loro ti scrivo queste parole / oggi che dirci insieme è dire nessuna speranza / sbarrati da ogni saggezza sbarrati dalla storia / ormai più di passato che di futuro nutribili. // E chiamandoti a un futuro di penuria / io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza / perché si possa dire che è una cosa reale / quella che due distinte persone vedono identica. // E tutto questo è ancora poco al confronto / del nulla di chi insegue un solitario ideale. / Essere umani può anche significare rassegnarsi. / Ma essere più umani è persistere a darsi».
Contestazioni e tentativi di rottura di ogni tipo hanno attraversato nell'ultimo secolo e oltre la parola poetica, negata dalle sue più remote prerogative, contraddetta. In tale spoliazione e scoronamento, essa ha trovato, si può dire, una sua ulteriore verità. Le lacerazioni, i tentativi più estremi (penso all'acume linguistico delle avanguardie e degli sperimentalismi) l'hanno in fondo nutrita. Essa si è posta al livello del singolo, dell'uomo, senza patenti e distinzioni.
Si tratta di un'arte che vive del senso di appartenenza e di comunione, sia pure cercato di continuo e non posseduto pacificamente (pena lo scadimento a retorica): una poesia compie la lingua in cui si esprime, la verifica e la inventa continuamente (naturalmente essa non ne è che una delle tante espressioni). Essa, la parola poetica, rende vitale la vicenda di una lingua, che anche grazie a essa non può assestarsi, immobilizzarsi, stagnare. La poesia desta, accende, determina riconoscimenti inconsueti: rende presente che tutto ciò che è stato scritto è ancora vivo; che il viaggio di Dante avviene nel presente e non è solo storia letteraria. Questo perché, per un poeta, Dante è compresente, operante: la sua lingua determina ancora avvenimenti dentro la lingua contemporanea di chi opera al capo estremo della tradizione.
Se vogliamo usare un occhio storico-critico e guardare al nostro Novecento, vediamo che la poesia ha prodotto una serie ininterrotta di autori «maggiori», dagli inizi del secolo fino al suo epilogo e passando per alcune personalità decisive che usano il dialetto: un bilancio credo non comparabile per ricchezza e complessità ai canoni della narrativa. In particolare negli anni dieci, venti e trenta del secolo sono nati, in una concentrazione rara, poeti in grado di costituire una tradizione degna dei maestri già canonizzati. La poesia di questi autori parla di un movimento di conoscenza, di un'avventura intellettuale, ma partendo dal dettaglio, dall'attenzione (come osserva ancora Celan) agli oggetti e ai minimi accidenti e naturalmente alle singole creature, tanto che essa può parlare dell'assolutamente Altro dall'interno di un discorso familiare, domestico.
Se questo è il catalogo, se tale è lo stato di un'arte, può ognuno di noi, in quanto lettore (e si ricordi Baudelaire), non sentire fraterna questa parola? Essa certamente vuole essere coinvolta nel nostro andare, contribuire a una conoscenza unitaria del mondo, di contro agli eccessivi settorialismi, e, senza dare risposte asseverative e assolute (per quanto a volte possa suggerirle), vuole parlare ad altezza umana, accettando e suscitando la serietà di colui che legge, non riducendolo a utente seriale. Che sia qui, in nuce, il segreto della sfortuna della poesia moderna? Certo, la moltiplicazione dei linguaggi ne ha ristretto il campo: essa si è rivolta, per lo più, in una direzione lirico-conoscitiva: si pensi, per noi, alla pietra d'angolo di Leopardi (ma Kazantzakis ha pensato di continuare nel Novecento greco l'epos omerico e Walcott, ad altre latitudini, lo rifà anche oggi). Oppure si è estremizzata in direzione metalinguistica, facendosi esperimento continuato, protesta, esibizione di non-senso. Ma in fondo, essa resta oggi una delle poche espressioni gratuite. Essa, semplicemente, è: il che implica non un darsi come prodotto, ma proprio una tensione, un movimento nell'essere, un'offerta, che si scontra però con il demone della facilità e della banalizzazione.
Ridurre la poesia a un piccolo ghetto autoreferenziale è un gesto di disprezzo per la lingua nella quale, da parlanti e da scriventi, si «abita». Per questo si vorrebbe che da ogni disciplina e campo di ricerca antropologico e umanistico un nuovo discorso cominciasse a prendere forma su di essa. La poesia è più grande delle sue piccole miserie (i dibattiti su quanto non vende, i minuscoli giochi di potere dei suoi maggiorenti, le polemiche personali) ed è su questo piano, quello di un'avventura di conoscenza, misteriosa perfino a se stessa, offerta ai simili, poggiata su basi instabili, che essa può contribuire al significato di una comunità, nazionale e universalmente umana. La stessa idea di Italia di cui siamo gli eredi non esisterebbe senza Dante e Petrarca e senza la lingua comune che su di essi poggia. Il cordone ombelicale tra il poeta e i parlanti, tra lui e chi oggi infantilmente dice «pappo» e «dindi» non è venuto meno. Piuttosto servono occasioni perché il ricongiungimento avvenga, superando gli ostacoli e le prevenzioni di un mercato inteso come feticcio. Occorre cultura.
In questo dinamismo, di una parola che si offre e chiede di essere accolta e di una comunità che le fa posto, tentando di intendere la sua nota, ognuno ha una parte: dà e riceve, cede e cresce." (da Daniele Piccini, La poesia cambierà il mondo. Oltre i settorialismi del sapere scientifico, i versi ci svelano la realtà. Ad altezza umana, "Corriere della Sera", 19/12/'11)

lunedì 19 dicembre 2011

Philip Roth: Niente romanzi mi interessano i saggi su Hitler e Stalin


"L´autunno è ormai terminato e, per la prima volta da molti anni a questa parte, non è uscito, come di tradizione, un romanzo di Philip Roth. L´assenza è stata notata sia in campo editoriale che giornalistico, ma lo scrittore appare a riguardo assolutamente rilassato, perfino divertito, e mi accoglie dicendo che non è mai stato più felice di non fare le cose in fretta, anzi di rammaricarsi «di non averlo fatto sempre». Non si è dato alcuna scadenza sul nuovo romanzo e confessa di provare un grande piacere a riflettere, attraverso letture di saggi e libri storici, su alcuni momenti che ha attraversato lungo la vita. Il prossimo marzo compirà 79 anni, e il giorno in cui l´ho contattato per realizzare questa intervista mi ha dato appuntamento in un ristorante dopo due settimane, dicendo «per allora prevedo di essere vivo», prima di scoppiare in una risata. «In questi ultimi tempi non ho letto molti romanzi» mi dice appena arrivo nel locale che ha scelto, un tranquillo ristorante dell´Upper East Side, «ma ho visto molti film, a cominciare da quelli di Susanne Bier. Non conoscevo il suo lavoro, ma poi mi ha contattato dicendomi di voler adattare Nemesis».
Come le sono sembrati i suoi film? «Mi è piaciuto molto Open Hearts: c´è un grande talento nel modo in cui sono costruiti i personaggi ed è strutturata la storia. E, conoscendola, mi è piaciuto il modo in cui intende affrontare il mio romanzo. In passato non sono stato molto fortunato con gli adattamenti, e l´unico aspetto interessante è stato il compenso».
Come mai ha preferito dedicarsi ai saggi e ai libri storici? «I romanzi continuano ad interessarmi molto, ma in questo momento sono affascinato da un approccio più scientifico e meno immaginario. Ho fatto solo un´eccezione: ho voluto rileggere un romanzo del quale portai fisicamente il manoscritto da quella che allora era la Cecoslovacchia, e riuscii a farlo pubblicare in America: Life with a star di Jiri Weill, che ha per tema la storia della persecuzione degli ebrei a Praga».
Come le è sembrato? «Sono stato felice di trovare intatta la grande potenza che ricordavo. Non ho mai letto nulla che ricostruisca con analoga forza e dolore cosa sia successo al popolo ebraico in quel periodo. E si sente che Weill parlava di avvenimenti che aveva vissuto di persona: proveniva da una famiglia ebraica ortodossa sterminata dai nazisti. Il libro uscì durante il periodo della dittatura comunista e non venne accolto bene: si parlò di "decadenza" e perfino di un "prodotto di una cultura vile". C´è da dire che Weill in gioventù aveva simpatizzato con gli ideali comunisti e sull´onda dell´entusiasmo aveva anche vissuto in Russia, da dove fu però costretto a fuggire per via delle persecuzioni staliniane. Era un uomo che sapeva riconoscere gli artisti, a prescindere dall´opportunità del momento: fu lui a tradurre Majakovskij e Pasternak».
Cos´altro ha letto? «Due libri che mi hanno profondamente appassionato e che riguardano lo stesso periodo storico: Hitler, a study in tiranny di Alan Bullock, e Stalin: the court of the Red Tsar di Simon Sebag Montefiore».
Iniziamo dal primo. «È un libro brillante, che racconta l´ascesa al potere di Hitler, ed il rapporto con la situazione storica dell´Europa e del resto del mondo. È necessario contestualizzare anche gli avvenimenti e le personalità più mostruose. Il che non può mai significare giustificarle, ma comprenderne la nascita e l´evoluzione».
Cosa l´ha colpito maggiormente? «Sul piano letterario l´abilità e l´accuratezza con cui Bullock ha costruito il libro. Per quanto riguarda il contenuto, appare sconvolgente la capacità che aveva un personaggio come Hitler di sedurre la folla ed un popolo con una storia gloriosa, di grande cultura. Nei momenti di difficoltà e disperazione l´uomo ha finito per seguire anche personaggi del genere, con idee abominevoli».
Passiamo a Stalin. «Un altro mostro, responsabile di un numero persino maggiore di morti. Ma anche in questo caso bisogna capire quali siano state le condizioni che lo hanno portato ad avere un potere assoluto».
Cosa le è piaciuto di più del libro? «Il modo in cui è descritto il mondo del suo circolo più ristretto: un mondo di figure inquietanti che lui stesso ha decimato. E anche in questo caso, il rapporto con una popolazione terrorizzata e adorante».
Colpisce che le sue letture odierne riguardino Hitler e Stalin. «Sono nato nel 1933, e si tratta di due personaggi che hanno dominato il mondo nei miei primi anni di vita. Mi interessano le personalità, e le ideologie che hanno portato rovina e morte».
Ha letto qualcuno dei nuovi scrittori? «Sì, il racconto che il New Yorker ha anticipato della nuova raccolta di Nathan Englander. È magnifico e si conferma un grande talento, capace di mescolare l´umorismo al dolore. Racconta una cena di due coppie di vecchi amici ebrei, una delle quali è diventata ultraortodossa. Englander riesce a parlare dell´Olocausto e dell´11 settembre, dell´uso delle droghe e di cosa significhi essere un genitore con una leggerezza ed un acume straordinario. E riesce a comunicare, senza essere mai pesante o volgare come possano essere irritanti alcuni atteggiamenti degli ortodossi. Mi piace tutto, a cominciare dalla lunghezza, inedita per un pezzo di fiction del New Yorker, e il titolo, che mi riporta a quello di cui parlavamo prima: Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank»." (da Antonio Monda, Philip Roth: “Niente romanzi mi interessano i saggi su Hitler e Stalin", "La Repubblica", 19/12/'11)

sabato 17 dicembre 2011

Diario di lettura: Don DeLillo


"«Io per mestiere mi occupo del fatto che viviamo in tempi pericolosi». Comincia così, Don DeLillo, a raccontare cosa fa nella vita e come ci è arrivato.
L’occasione è la pubblicazione di The Angel Esmeralda, la sua prima raccolta di racconti, che uscirà in Italia a febbraio da Einaudi (l’editore, tra l’altro, di Underworld), con lo stesso titolo. La prima storia della collezione, Creation, risale al 1979, e l’ultima, The Starveling, al 2011. Quindi offre la scusa per riguardare l’intera carriera di un autore che, secondo il severo Harold Bloom, sta nell’olimpo dei quattro scrittori americani migliori dei nostri tempi.
Perché una raccolta di racconti proprio adesso? «Non lo so, è un’idea della mia editor. All’inizio ero scettico, ma dopo aver completato la scelta ho scoperto di esserne orgoglioso. Mi piacciono i racconti, la loro brevità mi guida».
Un lettore che non conoscesse le date in cui li ha scritti, potrebbe pensare che sono tutti di oggi. E’ lei che è bravo a prevedere il futuro, oppure i dilemmi
della nostra società non sono cambiati e restano irrisolti da quarant’anni? «Come dicevo, mi occupo della pericolosità dei nostri tempi, che sta aumentando. Siamo tutti concentrati sull’individuo, invece che sulla società, e la forma del racconto consente di cogliere meglio le nostre angosce, perché in genere si modella sulla storia di un protagonista. I romanzi sono più estesi, più esposti ai mutamenti e ai conflitti della cultura e della società».
Quando si è convinto che i nostri tempi sono pericolosi? «La mia vita personale è
stata segnata dall’uccisione di John Kennedy, che ha dimostrato la forza della violenza e la fragilità dei nostri sistemi di vita. Poi abbiamo sopportato quarant’anni di guerra fredda, con la perenne minaccia nucleare. Quando pensavamo di esserci liberati, è iniziata l’era del terrorismo, dove non puoi salire su un aereo senza pensare a quali strane idee potrebbe avere in testa il tuo vicino. Uno scrittore non può ignorare questa paura e l’instabilità che ci circonda».
Non era così quando aveva deciso di occuparsi di letteratura? «Ho cominciato tardi, in realtà. Per due ragioni: non avevo ambizione e non mi sentivo pronto. Il mio interesse per la letteratura è iniziato dalla lettura».
Come? «Da ragazzino facevo un lavoretto in un parcheggio di auto. Mi annoiavo e cominciai a leggere. Fu l’inizio dei miei anni d’oro della lettura, quando avevo venti e trent’anni».
Quali sono gli autori che l’hanno influenzata? «Molti. Non mi hanno influenzato
nel senso che ho cercato di imitarli nel lavoro riga per riga, ma perché mi hanno fatto scoprire il potere della letteratura. James Joyce, che mi ha mostrato la
bellezza della lingua inglese. Poi Hemingway e Faulkner, per l’abilità di descrivere il panorama americano. Ma anche tanti europei, che sono stati assai importanti».
Tipo? «Max Frisch, Italo Svevo, Cesare Pavese, Camus. Ho letto molto anche Nabokov».
Perché l’hanno influenzata? «Ci sono elementi nella narrativa europea, su varie tipologie di individualità, minacciate da forze esterne al loro controllo. Gli europei non sanno rendere la forza e il significato di un paesaggio come Hemingway, Faulkner o Steinbeck. Però quando Kafka descrive le forze che spazzano via le vite degli individui, senza che possano far nulla per opporsi, è insuperabile».
Nella sua casa, poco a nord del Bronx dove è cresciuto, quali libri ci sono? «Troppi, sono pieno di libri».
Maquali sta leggendo adesso? «Beckett e il catalogo delle opere di William De Kooning».
Perché? «Beckett è il campione della frase. Rileggerlo è una sfida, perché mi stimola ad immaginare attraverso quale percorso sia arrivato a scegliere le parole che poi ha messo in fila. Sempre sorprendente».
E le opere di de Kooning, cosa c’entrano? «Sono stato tre volte e vedere la sua mostra al Moma. La pittura astratta espressionistica è stata sempre una delle ispirazioni della mia scrittura. Pollock, Rothko, de Kooning: mi piace perdermi davanti ai loro quadri. E’ una grande esperienza, e presenta il vantaggio che poi non devo scriverne».
Quali sono i tre libri che obbligherebbe tutti a leggere? «Ulisse di Joyce, e poi qualunque cosa di Hemingway e Faulkner: scegliete voi, tutta la loro opera è essenziale. Mi è piaciuto molto anche JR di William Gaddis».
Uno dei fondatori del postmodernismo, come lei. «Lasciamo perdere le etichette.
Mi affascina la sua satira sul caos della società».
Infatti un racconto di Esmeralda, «Hammer and Sickle», fa ironia su
un gruppo di banchieri rinchiusi in prigione per reati finanziari. Stiamo vivendo solo una crisi economica, oppure qualcosa di più grande? «Se guardate le proteste come quella in corso a New York, "Occupy Wall Street", si capisce che siamo di fronte ad una grave insoddisfazione generale. L’economia è il centro, ma la gente è preoccupata soprattutto per la mancanza di leadership. Abbiamo la chiara sensazione di vivere in un mondo dove succedono cose enormi senza controllo».
Perciò, nel racconto che dà il titolo alla raccolta Esmeralda, un’anziana
suora va a caccia di miracoli nel Bronx? «La fede non è più quella tradizionale
con cui sono cresciuto. Ora è un credo costruito su misura per ciascun cliente. Ci interessa solo la dimensione locale, quello che è vicino a noi, e paradossalmente
internet ha contribuito a creare questa mentalità. Tanto per capirci con una metafora letteraria, ognuno crede di poter scrivere un romanzo il cui protagonista
è se stesso».
Ce l’ha con la tecnologia? «Tutti questi aggeggi che ci portiamo dietro hanno creato un obbligo di usarli e comunicare, anche quando non abbiamo nulla da dire. E’ contagioso».
E’ vero che lei si rifiuta di usare l’e-mail? «Diciamo che mi rifiuto di moltiplicare le comunicazioni non necessarie. Non è detto che dobbiamo fare tutti certe cose, solo perché la tecnologia lo consente».
La protagonista di un racconto di Esmeralda si ritrova minacciata da una serie di terremoti in Grecia, ma non trova la forza di scappare: siamo tutti intrappolati in questa fragilità? «Siamo molto assorbiti da noi stessi, e le nostre paure spesso nascondo proprio dall’incapacità di guardare fuori. Se lo facessimo, magari anche attraverso la letteratura, capiremmo che la fragilità è una minaccia costante del genere umano, ma almeno sapremmo che non è un problema personale».
Come Leo, protagonista del racconto The Starveling, che chiude la raccolta
Esmeralda. Lui, per scappare dalla società, passa la vita dentro un cinema.
«E’ incapace di adattarsi alle situazioni, di fingere per essere accettato. Si rifugia nel buio di un cinema perché questo gli dà la sicurezza di non dover interagire. La maggioranza degli esseri umani oggi sembra spinta al comportamento opposto: comunicare a tutti i costi, anche se non si ha molto da dire».
Questa frenesia, però, è anche il fenomeno che trasforma interpreti della società
come lei in icone globali. «Io sono nato come scrittore marginale, e non so dirvi perché ho avuto tutto questo successo. Però non ho alcun problema a tornare nell’angolo della stanza, per osservare»." (da Paolo Mastrolilli, “Oh, Beckett: è il campione della frase”, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/12/'11)