martedì 28 giugno 2011

Centoquattro poesie


"E' semplice: se la poesia recita 'L'ultima notte ch'ella visse fu / simile a ogni altra notte / se non per la sua morte', è probabile che un giovane nostro contemporaneo 'più non vi legga avante'. Se invece suona: 'L'ultima notte che visse / era una notte comune / tranne il morire -', proseguirà. In entrambi i casi è di Emily Dickinson che si tratta, e non c'è errore nella prima versione di Silvio Raffo, benemerito traduttore, solo che sono passati gli anni ed è cambiata la lingua. Anche se è sempre stato vero che l'inglese vuole il pronome soggetto dell'azione che il verbo esprime, mentre l'italiano no, non ce n'è bisogno, il soggetto lo si può sottintendere.
E' una particolarità della nostra lingua, su cui riflettendo potremmo forse avvicinare una verità del nostro carattere, ma intanto così si abbrevia una certa lentezza dell'italiano e la seconda traduttrice, Silvia Bre, ne approfitta. Del resto in questa nuova edizione di Centoquattro poesie che esce per Einaudi, la tendenza al risparmio è chiara. Lo dimostra la nota di poche righe, ma essenziali, in cui chi traduce dichiara di non avere un criterio e comunque non le sembra importante la teoria, perché la traduzione è una pratica.
E' un atto di 'nudo artigianato'. Un atto che presuppone conoscenza e competenza linguistica etc. etc., ma soprattutto presuppone la lettura lunga, ostinata, appassionata. Attenzione però, la lettura è un'interpretazione. Per fare un esempio, ma ne potrei fare altri, se Silvia Bre nella poesia numerata 303 di pag. 36 traduce 'Majority' come 'maggiore età' e non come 'maggioranza' o 'moltitudine' o 'i più', è perché interpreta quella parola. Tra gli indizi fluttuanti di significato che aleggiano in 'Majority' c'è anche quello, ma qui l'ambiente semantico ne stabilizza uno, e non è quello di maggiore età, che rimane sullo sfondo. Silvia Bre scrive: 'L'anima seleziona la sua corte - / poi - chiude la porta - / alla sua maggiore età divina - / altri non si presenti' ... Ottimo. Ma il lettore così non visualizza l'atto dell'anima che una volta scelta la sua compagnia serra la porta e si sottrae lei al mondo. Nell'esistenza sua propria Emily fece così, non si presentò ai più, ai molti, alla maggioranza, se non postuma in quelle carte segrete, in quei quaderni che cuciva e che contenevano le sue poesie.
Mi direte, in poesia non si può salvare il suono e il senso e il poeta-traduttore qui gioca più che con il senso, con il suono. Ed è senz'altro così. Ma proprio per questo forse da lettore ignorante e appassionato io sempre più spesso sogno una traduzione interlineare che mi aiuti ad ammirare appieno le acrobazie linguistiche che accadono in un verso ... E di cui Emily Dickinson è artefice sovrana, perché il timbro proprio della poesia dickinsoniana è l'ambiguità. Di lì nasce l'ironia, la sprezzatura metafisica della sua poesia.
Molte donne-poeta (non mi piace la parola poetesse) hanno provato a trasportare l'ellittica performance linguistica di Emily Dickinson all'italiano: per nominarne alcune tra le più recenti, Amelia Rosselli, Bianca Tarozzi, E ora Silvia Bre, la cui versione eccelle per sottrazione. Perché ha tolto molto e non ha aggiunto nulla, come lei stessa dichiara; in ciò dimostrando che sa leggere Emily Dickinson, che è un campione di parresia. Il gioco è a togliere, è in levare. La sua poesia è apofatica, ablativa.
Già nelle traduzioni di Barbara Lanati, non poeta, ma studiosa, questo timbro si imponeva fin dalla prima raccolta intitolata non a caso Silenzi, del 1986. Insieme alla volontà di accompagnare il lettore nella scoperta di una esplosività creativa e di pensiero senza paragoni nella storia della poesia. Anche lei una donna ... come Margherita Guidacci come Cristina Campo ... Tanto che mi chiedo: se Emily piace tanto a noi donne, non sarà perché è un'avventuriera dello spirito, capace di uno sguardo che dall'orizzonte minore, microscopico, di una vita tutta giardinaggio e marmellate, sconfina fino a a flirtare con l'infinito? Non siamo tutte così, e cioè metafisiche, noi donne? [...]" (da Nadia Fusini, Com'è bello scoprire una nuova Dickinson, "La Repubblica", 28/06/'11)

venerdì 24 giugno 2011

Il genio matematico da Boulez a Coetzee


"Si pensa spesso che le culture scientifica e umanistica siano contrapposte nei metodi e nelle finalità. Ma questi pregiudizi diffusi vengono messi profondamente in crisi dalla constatazione che scienza e arte, e cioè le rispettive punte di diamante delle due culture, sono visioni complementari e non contraddittorie del mondo, sia esterno che interno.
La prova più esplicita della compatibilità fra scienza e arte si trova nella matematica, che fornisce a entrambe uno strumento comune per esprimerne gli aspetti essenziali. Ad esempio, nel 1623 Galileo dichiarò nel Saggiatore che la matematica è il linguaggio della natura. In una lettera del 1904, invece, Cézanne professò un credo simmetrico che vedeva nella matematica il linguaggio dell´arte: un´estetica che fu precisata nei due manifesti Lo spirituale nell´arte e Punto, linea, piano di Kandinsky, del 1911 e 1926, e adottata da buona parte dell´arte astratta del Novecento.
Un esempio delle intersezioni delle due discipline è Suoni, forme, parole, il quarto e ultimo volume della Grande Opera Einaudi sulla matematica, che ho avuto l´onore di curare insieme all´amico e collega Claudio Bartocci.
Il primo volume di quest´opera, dedicato a I luoghi e i tempi, era uscito nell´ottobre 2007, e aveva offerto una visione della storia della matematica focalizzata non sui personaggi, come si fa di solito, bensì su quei santuari laici che sono state le sedi temporanee delle grandi scuole che hanno forgiato la disciplina: da Atene e Alessandria, a Gottinga e Princeton. Il secondo volume, dedicato a Problemi e teoremi, era seguito nel settembre 2008, e si era concentrato sulle grandi domande che i matematici si sono posti nel corso della storia, e sulle grandi risposte che sono riusciti a dare: dal teorema di Pitagora al teorema di Fermat. Il terzo volume, dedicato a Pensare il mondo, era apparso nel settembre 2010 e aveva esibito le molteplici applicazioni della matematica alle scienze della natura, dalla fisica all´informatica.
Attratti da un comitato editoriale di massimo livello, presieduto da sir Michael Atiyah, medaglia Fields e premio Abel, e composto di una mezza dozzina di menti brillanti, tre delle quali anch´esse medaglie Fields, un centinaio di autori di mezzo mondo hanno fornito nei loro saggi uno sguardo moderno e innovativo alla disciplina più complessa e misteriosa che esista. L´ultimo volume esplora le connessioni con la pittura, l´architettura, la musica, la letteratura, la filosofia, la linguistica, il cinema, gli scacchi. E, addirittura, la giocoleria!
Per convincerci, ad esempio, che il legame fra musica e matematica non è soltanto un´illusione acustica, Suoni, forme, parole isola nella storia momenti di interazione diretta e reciproca fra le due discipline. Persegue cioè, da un lato, la "matematica del senso" nella pratica musicale, scoprendo che molte strutture musicali sono effettivamente riconducibili a classificazioni matematiche, sia concrete che astratte. Dall´altro lato, il volume persegue anche la "musica della ragione" nella teoria matematica, identificandola nel lavoro dei numerosi scienziati che, per più di due millenni, si sono dedicati ad applicare le loro competenze specifiche al campo musicale, arrivando in qualche caso ad influenzarne l´evoluzione.
Senza dimenticare, naturalmente, che se i matematici hanno spesso avuto una competenza musicale, una conoscenza diretta della matematica non è comunque mancata a vari musicisti, che altrettanto spesso non hanno esitato ad esibirla: dal Trattato di musica secondo la vera scienza dell´armonia di Giuseppe Tartini, del 1754, alla Musica formalizzata di Iannis Xenakis, del 1971. Per non parlare, naturalmente, dei musicisti contemporanei laureati in matematica, da Pierre Boulez a Philip Glass.
Poi ci sono i legami della matematica con la letteratura. Al più ci si potrebbe aspettare un suo ruolo metaforico, esemplificato dall´assegnazione dei nomi delle sezioni coniche (parabola, iperbole, ellisse) ad alcune figure letterarie. Quel che si scopre invece è che i matematici possono essere sia autori che protagonisti, e che la matematica può essere sia argomento che struttura, di letteratura ai massimi livelli. Valgano fra tutti gli esempi di tre matematici che sono addirittura stati insigniti del premio Nobel per la letteratura: Russell nel 1950, Solzhenitsyn nel 1970 e Coetzee nel 2003. O di Ulrich, protagonista di L´uomo senza qualità di Musil, che era appunto un matematico.
Più in generale, Suoni, forme, parole, mostra nel suo complesso che i diversi aspetti della cultura sono tutti astrattamente connessi: il ritmo è simmetria della poesia e della musica, la simmetria è ritmo della pittura, la poesia è musica del linguaggio, la musica è pittura nel tempo, la pittura è musica nello spazio, l´architettura è musica pietrificata. E, soprattutto, la matematica è poesia dell´universo, pittura astratta del mondo, musica delle sfere: espressione, cioè, di ciò che i Greci chiamavano kosmos o logos, e che altro non è se non l´ordine razionale delle cose percepito attraverso il pensiero astratto. Come volevasi, appunto, dimostrare." (da Piergiorgio Odifreddi, Il genio matematico da Boulez a Coetzee, "La Repubblica", 23/06/'11)

martedì 21 giugno 2011

Colazione con Audrey. La diva, lo scrittore e il film che crearono la donna moderna


"È l'alba sulla Quinta strada deserta. Audrey Hepburn, occhiali scuri, tubino nero di Givenchy - il little black dress che cambiò la storia della moda - sguscia fuori dal taxi per sbocconcellare una brioche davanti alle vetrine di Tiffany's, e diventa una leggenda. Cinquant'anni dopo (la premiére di Colazione da Tiffany fu nel 1961) non ha perso il suo fascino. Per celebrarlo arriva in Italia il bestseller del New York Times, Colazione con Audrey. La diva, lo scrittore e il film che crearono la donna moderna (Rizzoli). Tra storia sociale, del cinema e del costume, questo saggio brillante e insolito racconta genesi, fortune e retroscena della produzione del film, e molto di più. C'è il racconto struggente della vita di Audrey, la sua metamorfosi da casta principessa di Vacanze romane a squillo sofisticata, la New York corrotta e scintillante di Capote con la sua corte di "cigni", ricche, bellissime e infelici signore dell'alta società. Autore è Sam Wasson, giovane critico e storico del cinema di Los Angeles ("il cinema viene al primo, secondo e terzo posto"). Ora sta lavorando a una biografia di Bob Fosse, "accanto a Marilyn, la figura più rappresentativa dello show business novecentesco". Intervistarlo nella cornice adeguata, a Manhattan davanti a un Martini, era impraticabile: ripieghiamo dunque su un appuntamento Skype. Sam, occhialoni alla Woody Allen e una massa di ricci, si affaccia alla webcam alzando un calice di vino.
Colazione da Tiffany è un film di culto per il pubblico femminile, ma una scelta insolita per un ragazzo nemmeno trentenne. «Scrivendo un libro su Blake Edwards ho scoperto che nessuno aveva raccontato la storia di questo classico, un punto di svolta per l'immagine della donna nel cinema. Nell'America dove dive e donne erano condannate al binomio santa-puttana, la "svitata" Holly Golightly, spigolosae seducente, scaltra e disarmante, fragile ma indipendente, manda in frantumi i canoni di femminilità degli anni Cinquanta e segna l'avvento di un nuovo modello di donna».
Colazione da Tiffany testo protofemminista? Tesi audace. «Holly/Audrey si fissò nell'immaginario come creatura libera e ribelle, non come prostituta. Non arrivo a sostenere che gettò i semi del movimento femminista, ma rese accettabili, anzi, attraenti, nuovi modelli di condotta: era ok anche non sposarsi ed essere sessualmente attive, divertirsi, bastare a se stesse. Anche nel vestire: il nero, che al cinema era il colore delle "donnacce", diventò un passepartout, sinonimo di chic e praticità. Il cambiamento era nell'aria. La Nouvelle Vague creò icone femminili controcorrente, da Jean Seberg a Jeanne Moreau, ma toccarono l'élite. Hollywood, la più potente fabbrica di cultura popolare e ideologia, agì direttamente sullo status quo».
Fu una rivoluzione involontaria. La macchina industriale del cinema non ci pensava minimamente. «Già. I produttori miravano solo a fare un buon film che guadagnasse. Ma l'industria cinematografica di allora cercava di anticipare le tendenze, mentre oggi non fa che rincorrere il mercato».
Oggi è un "classico" e non riusciamo a immaginarlo diverso, ma Colazione da Tiffany nasce da un percorso accidentato. «E' noto che Capote avrebbe voluto la sua amica Marilyn Monroe per la parte, ma la produzione non si fidava dei "mean reds" (le "paturnie") della diva. La MacLaine era impegnata, Jane Fonda troppo giovane. Audrey era un salto nel vuoto, e averla fu un'impresa, il ruolo della prostituta spaventava lei e l'iperpossessivo marito Mel Ferrer. Lo sceneggiatore George Axelrod arrivò dopo il fiasco di un altro scrittore, si rischiò che mancasse il compositore Henry Mancini. Ci fu battaglia sul finale, ne girarono due, quello attuale è di Edwards. Poi le rimostranze dei giapponesi, Kurosawa in testa, per la caricatura di Yunioshi ...».
Il racconto degli stratagemmi con cui fu aggirata la censura è appassionante. «Il romanzo di Capote doveva essere edulcorato. Per salvare qualcosa della sua sfida alla morale sessuale, Axelrod ebbe l'intuizione di usare il genere della commedia romantica - una storia d'amore con risate piene di significato e alle prese con dei limiti - come "cavallo di troia", innovandolo. Al centro del conflitto di Holly non c'è più il desiderio: può andare a letto con chi vuole! ma i legami. E lei e lo scrittore gigolò devono rinunciare alla sicurezza economica per il rischio dell'amore».
Il libro è documentatissimo (stampa, memorie, interviste, production files dagli archivi degli studios), ma ha lo stile di una commedia romantica degli anni d'oro. Nessuno ha pensato di trarne un film? «E chi interpreterebbe la protagonista? Natalie Portman, Anne Hathaway? Sono carine, intelligenti, capaci, ma ordinarie. Hollywood cerca cose già testate, guarda al passato, mira al profitto sicuro. Non mi sorprenderebbe che Audrey Hepburn non ce la facesse, nell'industria di oggi: una come lei era un rischio, rappresentava nuovi ideali estetici. Oggi invece la maggior parte delle commedie romantiche prodotte sono inutili. Gli scrittori, un po' come Axelrod, devono combattere per portare sullo schermo personaggi che non interagiscono come bambini ma come adulti, con emozioni reali e complesse».
Nessuna Audrey all'orizzonte? «L'unica star a cui posso pensare - e sono completamente serio - è James Franco. Sul versante maschile, supera i limiti e gli stereotipi di genere come fece Audrey. Non vedo nulla di paragonabile tra le attrici di Hollywood».
Quali film hanno avuto un impatto paragonabile sul costume e sulla trasformazione dell'immaginario femminile, prima e dopo? «Katharine Hepburn fu un'apripista: Susanna è del 1938. La Jill Clayburgh di Una donna tutta sola veicolò la nuova femminilità degli anni Settanta. Poi è subentrata la tv. Non sono un grande fan della serie Sex and the city, ma indubbiamente, portando per la prima volta sullo schermo protagoniste che parlano di sesso in modo tanto esplicito, è stata una potente "comunicazione in codice" tra e per le donne. Ma l'industria cinematografica non offre nuovi modelli»." (da Benedetta Tobagi, Le donne modello, "La Repubblica", 21/06/'11)

lunedì 20 giugno 2011

Che fine hai fatto, letteratura?


"Da un po' di anni a questa parte mi chiedo se da noi esiste ancora la letteratura, o meglio il racconto letterario, dove il lavoro sul linguaggio è molto più impegnativo dello sviluppo del plot. Mi passano tra le mani centinaia di libri dei miei connazionali, spesso molto interessanti per i temi affrontati. Si leggono con una certa sveltezza, non si dilungano in divagazioni, si esprimono in un campo lessicale piuttosto agile ed essenziale, utilizzano una lingua denotativa che tende a omologarli sul piano dello stile. Il lettore fa pochi sforzi, prende per buoni i caratteri dei personaggi, delineati più tramite l'oggettività delle azioni e dei comportamenti che attraverso la menzogna dei pensieri, anzi della lingua dei loro pensieri. Così risultano accattivanti i romanzi e i racconti che hanno trame elaborate e ricche di rimandi e indizi. All'aumento, fin troppo vertiginoso, di raccontatori di storie, corrisponde una visibile diminuzione di letteratura. Ho sempre pensato che spezzare ogni rapporto tra gli uomini e la lingua che li racconta vuo dire togliere alla storia ogni responsabilità sul loro vissuto. La lingua del romanzo è come il coro della tragedia greca, ha funzione di personaggio collettivo. Molto spesso, sfogliando questi libri, anche sbrigativamente, sento con imbarazzo la forte interferenza della figura esterna dell'editor.
Quando ho cominciato a scrivere in prosa, verso al fine degli anni Sessanta, volevo 'fare letteratura', come i miei fratelli maggiori e i miei padri. Non pensavo soltanto a storie da raccontare, ma a inventare uno stile, a giostrare con la lingua italiana in modo da farle dire qualcosa di più rispetto alla pura cronaca dei fatti. C'è da ricordare che ancora non esisteva una lingua nazionale codificata: lo scrittore era obbligato a fare i conti con i dialetti, mentre il suo collega francese aveva a disposizione un codice linguistico condiviso dall'intera nazione. [...] La mancanza di una lingua nazionale ha costretto gli scrittori italiani alla letterarietà, cioè all'invenzione di una lingua scritta che potesse fare da piattaforma, da fondale linguistico al racconto. Pensiamo al Pasticciaccio: una cattedrale di invenzioni lessicali e stilistiche, un concerto di neologismi e contaminazioni sostengono una vicenda flebile e leggiadra, un giallo ambientato nell'epoca fascista. Sarò proprio il grande lavoro strettamente letterario di Gadda a fare di questo romanzo non solo un capolavoro assoluto, ma anche il romanzo più antifascista del secolo. Il miracolo, più che la vicenda narrata, l'ha compiuto lo stile. Quando scrivevo da ragazzo i miei riferimenti erano soprattutto gli scrittori italiani. Da narratore dovevo innanzi tutto confrontarmi con la lingua che usvano i nostri artisti, piuttosto che con quella di traduzione. Da lettore amavo più Flaubert che Guido da Verona, ma da falegname della scrittura mi esaltavo scoprendo i trucchi e i funambolismi di chi sapeva dove mettere le mani nel nostro vocabolario. La 'questione della lingua' ha attraversato tutta la letteratura italiana fin dalla sua nascita, e da giovane passavo intere giornate a seguire l'incessante dibattito tra studiosi e letterati che cercavano di analizzare e decifrare il rapporto del singolo autore con la lingua italiana. Accanto agli scrittori 'sublimi', attenti al senso e al suono della singola parola, come Landolfi o Manganelli, operavano artisti più interessati alle vicende, che usavano la lingua con puro spirito di servizio, coem Moravia o Soldati. A me piacevano sia quelli che questi, anche perché trovavo una buona quota di letteratura anche in chi lasciava sulla pagina, volutamente o no, ripetizioni e sporcature. Il tono di voce dei narranti, il paradigma sottinteso, l'adozione dell'indiretto libero, la mimesi lessicale (alta e bassa), la regressione nei personaggi, facevano in modo che anche lo stile del narratore super partes raccontasse - appunto attraverso il linguaggio - ciò che i protagonisti della vicenda non sapevano di se stessi [...]" (da Vincenzo Cerami, Che fine hai fatto letteratura?, "Il Sole 24 Ore Domenica", 19/06/'11)

Cerami nel catalogo Mondadori

Livio Garzanti: 'La crisi italiana è culturale'


"Livio Garzanti, novant'anni il prossimo primo luglio. Lo incontriamo nella sua casa milanese, dove ci accoglie con battute e spirito da giovanotto. 'Ma perché dovete occuparvi di me?', borbotta lasciandosi cadere su una comodissima poltrona. Una pausa e poi un'altra domanda che non ha bisogno di risposte: 'Ma lei è così ingenuo da credere che ci siano ancora editori?'. Infine, una sentenza che andrebbe meditata: 'La crisi dell'Italia è una crisi culturale'.
Garzanti ha scritto due romanzi, L'amore freddo (1979) e La fiera navigante (1990), i racconti Una città come Bisanzio (1985) e un saggio filosofico, Amare Platone. Una lettura del Fedro (2006), ma soprattutto è l'ultimo esemplare di quella razza di editori - anche nel senso industriale - che fece onore all'Italia. Appena ci vede, le sue parole non si fanno attendere: «Romanzi? Narrativa? C'è ancora qualcosa che vale la pena leggere? Me lo dica, per favore, perché i libri durano qualche giorno e niente si fissa nella memoria». Dopo un calcolato stacco con sospiro: «Siamo sommersi dai premi ma non ricordiamo nemmeno i titoli dei vincitori dello scorso anno. Vedere i "letterati" di oggi mi fa senso, anzi mi sembra di essere caduto in una pozzanghera».
E dopo una breve pausa: «Quando andavo alla Garzanti, nel mio ufficio, incontravo Dino Buzzati, Pietro Bianchi, Orio Vergani, Attilio Bertolucci. Ludovico Geymonat veniva con il suo progetto di una storia del pensero filosofico e scientifico, Emilio Cecchi e Natalino Sapegno con quello dedicato alla letteratura. Oggi?».
È difficile replicare, anche perché affronta le conversazioni con spirito guerriero. Ogni tanto si concede preziose riflessioni («Ci si sbianca lentamente della vita») e sovente lascia spazio ai ricordi e a qualche rivelazione: «Posso definirmi scandalosamente fortunato per aver avuto un padre come il mio e avere fatto l' editore quando c'era una società letteraria». Sul tavolino ha Le faville del maglio di d'Annunzio nell'edizione Treves, ma il giudizio è più veloce della domanda: «Pagine piene di estetismo insopportabile».
Gli chiediamo qualcosa dei suoi incontri, dei tanti autori che ha scoperto, pubblicato, inventato. Il primo, chissà perché, è Carlo Emilio Gadda. «Non me ne voglia - confida - e non si aspetti cose mirabili. Mi mandava lettere, che poi diedi a Dante Isella; io, sovente, lo torturavo approfittando della sua singolare psiche. Mi ha aspettato molte volte in doppiopetto blu sugli scalini della sede Garzanti di Roma, mi omaggiava odiandomi, sempre con un leggero inchino».
Poi salta a Riccardo Bacchelli: «Era umano e io da ragazzo lo scambiavo per Manzoni, autore quest'ultimo che non ho mai troppo amato. Il creatore de Il mulino del Po aveva aplomb, era onesto, sapeva parlare». Si concede una pausa in questa galleria che sta evocando: «Non amavo lo zoo dei letterati, le serate noiose che organizzavano gli editori e che oggi sono mitizzate. Ho evitato lunghi soggiorni nei salotti ma non ho mai preteso di avere la dignità di uno snob».
E questo - aggiunge - «anche se ho incontrato Benedetto Croce dai Gallarati Scotti quando avevo circa venticinque anni». Sentito siffatto nome, la nostra domanda sull' argomento non si fa attendere. «Mi diede la mano - replica Garzanti - ma non parlò con me».
Gli ricordiamo che si era da poco laureato in filosofia e un'occasione simile non capita facilmente, nemmeno al figlio di un grande editore quale lui era. «È vero, è vero - ribatte - e feci la tesi con Antonio Banfi, ma non ricordo più l'argomento». Per non lasciarci sopraffare dai suoi colpi di fioretto scettico, tiriamo in ballo il saggio su Platone e gli confidiamo di aver visto nella sua biblioteca anche le opere in greco. «Guardi - risponde - che non desideravo scrivere un capolavoro sul sommo ateniese, ma soltanto mettere in evidenza il Platone non cristiano, soprattutto l'aspetto poetico. Quello che si chiosa nelle scuole, nelle università (ammesso che riescano a sopravvivere alle riforme) è stato sistemato dai Padri della Chiesa e a me non piace, non è vero, è falsificato».
Per continuare il dialogo cerchiamo di allontanarci dalla filosofia e sollecitiamo i ricordi con Goffredo Parise. «Il padrone lo ha scritto pensando a lei?», chiediamo. La risposta è deliziosa: «Parise veniva sovente a pranzo da me per poi scrivere male di me. Pasolini, di cui ero amico, mi disse che quello ricordato era un libro d' amore. Occorreva leggerlo con la giusta chiave».
Già, Pasolini. Non si diedero mai del «tu», ma il loro rapporto ha lasciato in Garzanti emozioni che continuano. «Era un puro, un càtaro», sussurra con voce non più decisa. E poi: «Mi era molto amico, ma non c'era tra noi confidenza. Mi lasciò per andare da Einaudi perché avevo pubblicato un autore da lui detestato, che poi vinse lo Strega. Mi colpì profondamente la nostra ultima passeggiata notturna, le confidenze che mi fece; tutti però temevano qualcosa, a causa degli ambienti che frequentava. Pasolini era un grande, possedeva il dono, il sentore, la grazia della raffinatezza letteraria».
Una pausa e incalza: «Tranne per Petrolio. Lo lessi per primo e dissi subito: impubblicabile. Erano appunti, non un'opera».
Non dimentica Mario Soldati. Lo mette in scena con tocco da maestro: «Sapeva scrivere, raccontare; mi chiedeva però sempre soldi, seppure in modo casto e giusto». E con un sorriso: «Credo fosse stato l'amante della figlia di Churchill, comunque da lui andò a pranzo». Garzanti si sofferma sui ricordi di famiglia, a cominciare dalla mamma: «Esportò Leopardi in Francia - dice - ed ebbe una corrispondenza con Maria Montessori. Durante una passeggiata con Bernard Berenson, il sommo esperto d'arte fu più svelto di me bambino nel raccoglierle il fazzoletto caduto». Passa al padre: «Si laureò in storia, sugli Ordelaffi, con Pascoli; poi si diede alla chimica, al tessile e nel '38 comperò la Treves».
Gli ricordiamo una testimonianza del musicista Gino Negri: «Quando facevamo il servizio militare, arrivava alla caserma il cameriere di famiglia con pietanze per Livio decisamente migliori di quelle della mensa». E lui: «Le ha detto una bugia, anche se era una gran persona». Di rimando: «Ha aggiunto che lei fu sempre di notevole intelligenza». «Questa - risponde Garzanti - non è una malignità». Fascinosi sono gli scorci delle vicende della casa editrice: «Ho inventato i dizionari fatti in casa. Mio padre fece un contratto assurdo con Hazon per l' inglese, concedendogli il 17%, ma tutti capirono che non si poteva onorare una simile promessa. Cominciai allora, grazie alla mia insegnante del liceo, che poi ebbe una cattedra alla Bocconi, a realizzare con i suoi migliori allievi vocabolari che non avevano un autore ma recavano solo il marchio Garzanti. Feci allo stesso modo anche con i testi scolastici, con una visione industriale. E i proventi finivano nel catalogo e permettevano di non scendere a bassi compromessi».
Anche l'invenzione delle «Garzantine», come le battezzarono gli agenti, non fu cosa da poco. «Rileggevo - ricorda - le voci e sovente consigliavo dove e come ridurre, arrivando all'essenziale. Furono considerate un modello linguistico oltre che di informazione».
Del resto, Silvio Riolfo Marengo, che di Garzanti diventerà amministratore, quando fu assunto in casa editrice lavorò alla scolastica insieme a Gina Lagorio, poi passò a dirigere le «Grandi opere». Ma il suo primo incarico fu «tagliare le voci iniziali dell'enciclopedia "somma", scritte da altri, in uno stanzino piccolo e afoso». Già, erano i primi fogli dell'Europea, della quale - precisa Garzanti - «mi manca un volume». Gli confidiamo: «Non si preoccupi, anche Voltaire non trovava più nella sua biblioteca un tomo dell'Encyclopédie di Diderot et d'Alembert»." (da Armando Torno, Livio Garzanti: 'La crisi italiana è culturale', "Corriere della Sera", 18/06/'11)

sabato 18 giugno 2011

Montaigne, l'arte di vivere


"La lettura e la scrittura come antidoto all’angoscia di morte, l’autobiografia come riflessione sui limiti della condizione umana e comunicazione: questa la strategia per vivere meglio che spinse Michel Eyquem de Montaigne, tra il 1570 e il 1580, a scrivere un’opera di straordinaria modernità.
Aveva trentasette anni, faceva con poca gioia il magistrato al parlamento di Bordeaux ed era appena scampato a unincidente mortale.
Iniziato come un esercizio in cui osservare e «saggiare» se stesso con grande sincerità, «con i difetti al vivo», per lasciare un suo ritratto veritiero a parenti e amici, quel diario quotidiano lo aiutò a salvaguardare il piacere di vivere in un periodo flagellato dalle guerre di religione e dalla peste.
In effetti, destinata alla posterità, l’opera non ha smesso di essere considerata un breviario di saggezza e laicità.
Pubblicata nel 1581 col titolo Essais, ovvero Saggi, nel senso di osservazioni, assaggi, approcci, scritti secondo il corso dei pensieri e degli avvenimenti, e arricchita fino alla morte, nel 1593, descriveva Montaigne con vivacità e franchezza come un uomo comune, non troppo dotato né fisicamente né sessualmente, ma socievole, col senso dell’ironia e della moderazione, sempre pronto a sospendere il giudizio, perché «illusoria è l'idea di stabilire la verità», e a usare il dubbio come difesa dalle passioni distruttive. Il successo fu immediato e nonostante l'ostilità di Cartesio e Pascal, e la messa al bando dell’Inquisizione, da Shakespeare a Francis Bacon, da Voltaire a Sterne, Nietzsche, Joyce, Stephen Zweig, l'importanza e attualità dei Saggi non è stata scalfita. Lettore assiduo di Montaigne, Flaubert ne raccomandava la lettura addirittura come una terapia: «Ti consolerà», scriveva alla nipote; e a Louise Colet confidava di non conoscere un libro che disponesse alla serenità meglio degli Essais.
Prendendo alla lettera le raccomandazioni di Flaubert, l'inglese Sarah Bakewell ha riproposto Montaigne come un modello di How to live in una magnifica biografia appena tradotta da Fazi nella collana Campo dei fiori diretta dall’editore e da Vito Mancuso. Il titolo italiano, L'arte di vivere, è tanto accattivante quanto originale il disegno di proporre la vita di Montaigne in «una domanda e venti tentativi di risposta», come recita il sottotitolo.
In tempi di fanatismi religiosi e massacri, catastrofi naturali ed epidemie, abusi di potere, crisi di ogni tipo e smarrimenti, a giustificare il grande successo in Inghilterra e in America non sono soltanto l’invito alla moderazione e alla tolleranza, l’attenzione per la natura, per la complessità del reale e per se stessi; o il ricorso alla letture, assimilate lentamente seguendo il piacere «senz’ordine né programma», e le strategie di scantonamento dai pensieri dolorosi.
Ad affascinare il lettore, sono certamente la morale laica di Montaigne che rende «eroica» l'individualità dell’uomo comune e la sua decisa critica del senso di onnipotenza e dell’arroganza umana. Ma a catturarlo con altrettanto interesse e piacere è il procedimento con cui la Bakewell partendo in medias res, dall’incidente che spinse Montaigne a una vita nova, ne ricostruisce il vissuto più autentico e la quotidianità attingendo dagli Essais e da una vastissima documentazione con una tale padronanza da restituirli con naturalezza in un racconto con sconfinamenti appassionanti: dalla rivisitazione delle filosofie ellenistiche e delle opere, soprattutto le Historiae di Tacito e le Vitae di Plutarco, alla ricostruzione dei conflitti ideologici tra cattolici e protestanti durante le guerre di religione, dalla fortuna dei Saggi alle loro interpretazioni.
La Bakewell, insomma, coglie al vivo il pensiero di Montaigne immergendoci nell'amore per il sapere e la conoscenza di sé che gli aveva fatto ritenere perfetta l'iscrizione con cui gli Ateniesi avevano accolto Pompeo: «Tanto più sei divino, quanto più ti riconosci uomo».
Indagati con sottigliezza, gli squarci familiari e i legami affettivi scolorano rispetto a quello con Etienne de La Boétie, l'autore di Discorso sulla servitù volontaria, un intrigante pamphlet contro la tirannide appena riproposto da Chiarelettere.
«Se mi si chiede di dire perché l'amavo - confessa Montaigne, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: perché era lui, perché ero io».
Amicizia spirituale alimentata dalla stessa passione umanistica per le opere morali e i classici, o omosessualità malcelata? Con quel «gemello», come più tardi con la giovanissima Marie de Gournay, prima curatrice dei Saggi, stabilì una comunicazione che lo pose al riparo, come sotto una campana di vetro.
Con dei limiti. Come l'incomprensione per la frenesia creativa e la perfezione che avevano ridotto Torquato Tasso alla follia o il temporeggiare con cui, sottraendosi ai suoi doveri di sindaco, si era salvato dalla peste.
Maestro di vita e filosofo dell’umiltà, apostolo di modernità e laicismo o campione di opportunistica prudenza? E magari «padre della nuova generazione di blogger narcisistici» come sul Telegraph ha scritto Oliver Benson? François Guizot lo definì il gran seduttore della letteratura francese. Ma Michel Leiris lo ha emulato nella sua Règle du jeu.
Oggi la biografia della Bakewell grazie alla sua dialettica pone al lettore qualche dubbio. E' ancora possibile salvaguardare la propria umanità prendendo distanza dalle atrocità, aspettando che il peggio passi e tutto rientri nell’ordine?" (da Paola Decina Lombardi, Ecco Montaigne, il blogger della serenità, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/06/'11)

Io non ho paura


"L'idea di celebrazione non si addice ad Ammaniti. Troppo irridente, lui, troppo maramaldesco, troppo tentato di mandare a Patrasso la nobile retorica celebrativa. Neanche l'idea di classico si addice ad Ammaniti, troppo sbilenco e grottesco, troppo lontano e alieno dal canone, dalla misura, dall'equilibrio, da ogni intento normativo. Almeno in apparenza. Eppure,a dieci anni dalla pubblicazione, ci si trova a celebrare (appunto) come un classico (appunto) il più breve e il più lineare dei romanzi di Ammaniti, Io non ho paura. Che in questi dieci anni non solo ha toccato picchi di vendita, per conto proprio e in compagnia del film che ne è stato tratto, ma, cosa persino più importante, ha messo radici e si è impiantato nel vero terreno del classico, cioè nella scuola. Come è avvenuta questa trasformazione, non un degrado, come ci si aspetterebbe da Ammaniti che tanti ce ne ha descritti, ma al contrario un'assunzione nell'empireo della letteratura? C'è qualcosa di familiare nel paesaggio, del tutto non determinato, in cui si svolge Io non ho paura. Le letterali quattro case più villa cadente del borgo, la strada dritta attraverso i campi di grano tutti gialli, giallissimi, la grande collina tonda, gialla anche lei. Dietro, in mezzo al giallo, la valletta tutta verde, in mezzo al verde la casa diroccata e in mezzo alla casa il buco nero. Terribile. Ma e' il disegno di un bambino, un foglio di carta disegnato con i pastelli colorati, per questo ci è così familiare. Senza averlo mai visto, lo abbiamo già visto infinite volte, lo conosciamo benissimo. E' uno spazio più reale della realtà e insieme più fiabesco della fiaba, è lo spazio infantile. Racchiusa in questi confini, la storia che Ammaniti ci racconta oscilla continuamente tra la realtà e la fiaba, dove la realtà fornisce la punta emotiva e la fiaba ne attutisce l'effetto, rende meno cruda la ferita. Il paesaggio del romanzo, che è tutto un paesaggio interiore, pulsa seguendo l'onda interna del protagonista, ma nello stesso tempo mette al riparo il lettore, lo rassicura, gli rende sopportabile l'atrocità delle cose. C'è qualche cosa d' altro di familiare, di stranamente familiare, a parte il paesaggio. Ed è l'universo degli adulti, gli abitatori delle quattro case, i genitori di Michele, il protagonista, e dei bambini suoi sodali. Fatta eccezione per il vecchio gangster Sergio Materia, straordinaria mistura di Cormac McCarthy e de I soliti ignoti, e per il ventenne Felice, piovuto direttamente dai fumetti con i suoi dentini da latte e il suo sorriso da coccodrillo appena nato, tutti gli altri sono gente comune, common people in canottiera, pantaloncinie sottoveste, amanti delle gondole di plastica sul televisore e delle sigarette Milde Sorte. Sono, di fatto, una banda di criminali feroci, che contemplano seduti intorno a un tavolo la possibilità di uccidere un bambino a sangue freddo, preoccupati solo dell' ergastolo, non della cosa in sé. E proprio qui sta la loro familiarità: sono simili, sono parenti stretti, dell'infinita serie di assassini e assassine seduti nei loro tinelli, infagottati nelle loro felpe e nei loro jeans sformati, cui la televisione ci ha abituato in questi anni. Tutti quelli con solo i nomi di persona, tutte le zie tali e gli zii talaltri. Solo che dieci anni fa, quando Io non ho paura fu pubblicato, non ce n'erano così tanti. Ancora una volta la realtà ha imitato la fantasia, la cronaca si è ispirata alla letteratura. Tanto vaghi sono i luoghi, la geografia, lo spazio, tanto precisi sono gli anni, il tempo.
L'azione si svolge nell'estate del 1978, quando Michele ha nove anni, e viene raccontata ventidue anni dopo, nel 2000, da un Michele a questo punto trentunenne. Perché tanta esattezza? In primo luogo per rassicurare il lettore: Michele è vivo, dunqueè sopravvissuto, dunque si può leggere la sua storia d'allora con animo sollevato. Ma soprattutto per distanziarsi da quella vicenda, per potere nello stesso tempo usare la prima persona, ma alternare insensibilmente l' io narrante bambino con l'io narrante adulto. Per paradosso la precisione del tempo assolve alla stessa funzione dell' indeterminatezza dello spazio. Allontana, e allontanando permette di controllare una materia così incandescente. Sarà un caso, ma la prima delle Fiabe italiane di Calvino si intitola Giovannin senza paura. E la paura negata ritorna nella spavalda dichiarazione che fa da titolo al romanzo di Ammaniti. La fiaba di Calvino è una fiaba di magia e Giovannino, che assiste combattivo a uno squartamento e a una ricomposizione magica, è davvero senza paura. Ma per il Michele di Ammaniti è vero esattamente il contrario. La paura è il soggetto, la paura è il tema e il filo conduttore del libro, la paura si insinua, crescee si addensa come le nubi che corrono verso il temporale finale. Ed è una paura terribile perché fatta non solo di timore dei pericoli esterni, che pure ci sono in buon numero, ma soprattutto della crescente consapevolezza che i propri cari sono malvagi, che sotto l'apparente normalità sono loro i mostri. La paura non c' entra con la fiaba, c'entra con la tragedia, è la componente costitutiva della tragedia. Arriviamo così a comprendere il carattere proprio della narrazione di Ammaniti, una narrazione che allontanata nel tempo e avvolta nello spazio della fiaba ha al suo centro un nucleo tragico: una fiaba tragica, dunque, una tragedia fiabesca. Non una fiaba sentimentale, come Il piccolo principe. E della tragedia ha anche quello che secondo Aristotele, maestro di tutti noi, è il secondo elemento costitutivo, la pietà. Mano mano che i criminali si rivelano per quel che sono, finiscono per rivelarlo anche a se stessi e in questo denudamento emerge la loro miseria, la loro debolezza, la loro pietosa umanità. Michele lo capirà nel momento culminante, quando vedrà nel padre amatissimo che si appresta a sparargli, avendolo scambiato per l'ostaggio, quello che il padre è sempre stato, un perdente, ma un perdente pietoso, per cui provare pietà. Quasi tutte le opere di Ammaniti, da L'ultimo compleanno dell'umanità a Come Dio comanda a Che la festa cominci, corrono precipitando verso una catastrofe finale che assume spesso le proporzioni di un cataclisma, straripa dal letto della verosimiglianza e travolge tutto nell'universale gorgo del grottesco. In Io non ho paura la catastrofe è secca e sintetica, c'è nel senso letterale del capovolgimento, ma nulla più. Si tratta di una doppia,e simmetrica, inversione di ruoli. Nel momento in cui il padre cessa di essere il padre e diventa l'uomo nero, il figlio cessa di essere il figlio e diventa l'ostaggio, dunque la vittima. Nello stesso momento il titolo del libro cessa di essere solo un modo per farsi coraggio e diventa vero: mentre si scambia con l'altro bambino, il suo alter ego, l'ostaggio, Michele è davvero oltre la paura, non ha più paura. La grandezza profonda del libro è tutta qui, in questo gesto oblativo di un bambino di nove anni pronto a offrirsi in sacrificio (anche se poi tutto finirà bene) per un senso di giustizia, per compensare l'iniquità del padre. Ed è l'invenzione di questa piccola Antigone laziale, non retorica e velata d'ironia, che trasforma Io non ho paura in un prodigio di equilibrio e di misura narrativa, lo fa rientrare, definitivamente, nella poco ammanitiana categoria del classico e ne giustifica da ultimo la celebrazione." (da Gian Arturo Ferrari, Dieci anni senza paura, "La Repubblica", 17/06/'11)

venerdì 17 giugno 2011

Il metodo Google


"Metodo Google, potremmo chiamarlo. Il motore di ricerca, fondato da Sergey Brin e Larry Page, gestisce circa la metà delle ricerche su Internet che si fanno ogni giorno nel mondo, rispondendo a trentacinquemila domande al secondo. Le mappe del sito, così come il servizio Earth, consentono di girare il pianeta con gli occhi stando seduti a una scrivania: Nero Wolfe, il grande detective creato da Rex Stout che ogni sera scorreva le pagine dell'atlante, ne sarebbe deliziato.

Nella sostanza Google fa, a ultravelocità, più o meno la stessa cosa che facevano gli Assiri circa tremila anni orsono: ovvero gestisce i metadati, che sono le informazioni sulle informazioni. Gli antichi catalogavano le tavolette di argilla usando appositi segni di riconoscimento, Google ha inventato un algoritmo altrettanto geniale che permette di scovare miliardi di aghi in quell'immenso pagliaio globale che è Internet.

Perché ne parliamo? Perché sempre di più chi usa le informazioni si sente sommergere da un vero e proprio diluvio di dati. E non riesce a capire se è un bene o se è un male, sentendosene al tempo stesso esaltato e frustrato. Non è un fenomeno di élite, perché le informazioni sono il pane quotidiano dell'economia, della cultura e della società. Inoltre, in un modo o nell'altro, Google è diventato uno strumento essenziale per chi, in particolare, le informazioni maneggia e di informazioni campa: gli studenti, gli insegnanti, ma anche gli imprenditori, gli uomini della finanza, i ricercatori, i giornalisti, gli scrittori, insomma le rotelle piccole, medie e grandi che fanno girare la macchina del vivere contemporaneo. Ma dietro la sua facilità apparente, che lo rende simile a un manuale delle giovani marmotte capace di rispondere istantaneamente a ogni quesito, Google nasconde qualche insidia che è bene rammentare.

Da un lato, la ricerca di dati viene semplificata, perché tutto è facilmente accessibile, almeno in apparenza. Dall'altro, la vita si complica perché, ogni volta che «googliamo», dobbiamo distinguere i materiali pregiati da un mare di scorie di scarso valore. E, mentre vediamo scorrere sotto gli occhi migliaia di righe, immagini e suoni, abbiamo una specie di visione che si potrebbe condensare in un disegno: il profilo di un omino sotto una pioggia battente di numeri e parole, che lui raccoglie con un ombrello rovesciato per poi bagnare la sua personale pianticella del sapere.

Ma andiamo sul concreto: gli studenti universitari, grazie a Google, realizzano tesi migliori? I giornalisti scrivono articoli più documentati? Gli scrittori costruiscono storie più avvincenti?

Giulio Giorello, filosofo e matematico, ritiene di sì, pensa che questo miglioramento complessivo sia già in corso; e aggiunge, con un sorriso, che i nuovi media tendono a esaltare i pregi e i difetti delle persone: i creduloni (lui per la verità dice «boccaloni») si rivelano ancora più creduloni perché, come dicono gli irlandesi, si bevono il cammello insieme alla birra; e gli intelligenti diventano, forse, ancor più intelligenti.
La prima delle virtù che si richiedono al bravo «minatore di dati» è infatti questa: la diffidenza, una caratteristica che si richiede anche al buon giornalista. Magari con un pizzico di cinismo, se non proprio una manciata. «Molti dei miei studenti - dice l'epistemologo - riescono a usare le tecnologie in modo abile e critico, ottenendo una qualità di risultati che si innalza man mano che dalle tesi triennali, essenzialmente compilative, si sale al livello delle specialistiche e al dottorato. Verso il sito Wikipedia, per esempio, i più bravi tendono a sviluppare un atteggiamento sanamente circospetto e sono di solito abbastanza svegli da sospettare l'imbroglio».
Wikipedia è un caso interessante: come certi partiti politici, che molti votano ma pochi confessano di votare, molti lo usano - dai giornalisti ai professori - ma pochi lo ammettono. L'enciclopedia online è forse il simbolo dell'ambiguità internettiana. Piena di errori, omissioni, talvolta vere e proprie falsità, è al tempo stesso uno strumento utile, a patto che lo si sappia usare, confrontandone le informazioni con quelle prodotte da altre fonti o utilizzandolo soltanto come piattaforma di lancio verso ricerche più accurate.
Internet in effetti si dimostra utile in molti casi tra loro assai diversi: quando si è all'inizio di una ricerca e si raccoglie il materiale preliminare; quando, al contrario, si insegue un obiettivo preciso; oppure quando si vuole verificare la correttezza di un termine, di una citazione, di una data. Da tutto questo emerge anche la seconda virtù che un buon «googlista» deve possedere: il metodo. Tutti hanno sperimentato che andando in cerca di una cosa se ne trova un'altra e poi un'altra ancora e in questo modo ci si distoglie, ci si distrae, si smarrisce la strada, si perde tempo, si dissipano energie mentali e si finisce per vanificare il vantaggio iniziale della rapidità.
In alcuni casi il diluvio provoca una specie di pantano mentale, dove tutto si confonde e sembra uguale a tutto. Una specie di momentanea eclissi della mente. «Ciò che limita il vero - dice Giorello citando il matematico francese René Thom - non è il falso ma l'insignificante».
Insegnando logica e filosofia della scienza sia alla facoltà di Lettere e filosofia della Statale di Milano sia ad Architettura presso lo Iuav di Venezia, lo studioso confronta l'approccio umanistico e quello scientifico. «A Venezia - dice - ho visto usare i nuovi media con un atteggiamento che mi è sembrato più aperto e cosmopolita. Sicuramente contribuisce il fatto che alcuni di quegli studenti vengono da zone del mondo dove non c'è democrazia e dove quindi Internet è visto come un vasto, eccitante e fantastico territorio di libertà».

Un altro modo di guardare il «metodo Google» è quello di Giulio Sapelli, storico dell'economia e brillante polemista, che si concentra sul tema della corrispondenza tra mezzi di comunicazione vecchi e nuovi. La sua tesi è che i nuovi media non siano né possano essere strumenti alternativi a quelli tradizionali, ma piuttosto canali integrativi di conoscenza, in formidabile espansione. «Il libro - dice Sapelli - resta un'esperienza insostituibile e non solo per me ma anche per i miei studenti. Così come restano insostituibili la lezione frontale e il dialogo, individuale e collettivo, tra studenti e professori».
È la stessa ragione, osserva Sapelli, per cui una conference call (più persone in collegamento audio e video), peraltro utilissima in molte occasioni, non può sostituire del tutto la riunione in cui ci si guarda negli occhi, ci si conosce, ci si scambiano messaggi più profondi. «Non lo dico perché legato a vecchi modi di comunicare, al contrario: la nascita delle idee è un fatto anarchico, fisico, i progetti migliori nascono davanti alla macchina del caffè o, ancor meglio, a un bicchiere di vino. Se dovessi tradurlo in uno slogan direi che non si può sostituire la Silicon Valley con il Gosplan sovietico».

Dopo l'esortazione a essere diffidenti verso le fonti sospette e disciplinati nel metodo della ricerca, Sapelli suggerisce una terza indicazione di rotta. Cercare su Internet, sì, ma in modo integrato, cioè rivolgendosi a più fonti che possano aiutare nella navigazione: un esperto, un buon libro, un giornale di cui ci fidiamo, un sito di cui abbiamo avuto modo di verificare in più occasioni l'affidabilità. Senza dimenticare che in questa fase storica - come scrive il tecnologo Clay Shirky nel libro Cognitive Surplus - le tecnologie rendono più facile l'accesso, ma inizialmente possono far scendere il livello qualitativo medio delle informazioni.

Attenzione però: non stiamo parlando di un argomento che riguardi soltanto i cosiddetti lavoratori della conoscenza. La necessità di trovare informazioni pregiate è qualcosa che interessa tutti. Nell'era del diluvio informativo, com'è quella in cui siamo entrati, non serve soltanto un ombrello per ripararsi, bisogna anche saper cogliere le opportunità che si aprono per la nostra vita di relazione.

In una parte del pubblico, ad esempio, è sempre più avvertita l'esigenza di trovare elementi utili non tanto allo studio o agli affari quanto, semplicemente, alla formazione di un'idea propria, documentata, non banale sugli argomenti di attualità. Pur in un mondo di relazioni sempre più mediate dalla virtualità o forse proprio per questo, diventa rilevante, per alcuni, la capacità di affrontare una conversazione portando un proprio punto di vista interessante e originale.

È anche in questa direzione che si muovono gli interessi e gli studi del team guidato da Beppe Richeri, economista e storico dei media, all'Università della Svizzera italiana di Lugano. Richeri riassume dicendo che il «metodo Google» cambia la fabbrica della conoscenza in due modi. Il primo è la pura energia fisica che le persone spendono a incamerare una maggiore quantità di dati (il surplus cognitivo, appunto). Il secondo è lo sforzo profuso nel valutare l'attendibilità delle fonti. «Spesso - precisa - sono fonti acefale: non si sa chi ha scritto che cosa, da dove viene un documento, chi lo ha veicolato e perché. Non c'è l'aiuto di un editore di libri o di giornali, che professionalmente certifica la qualità, l'onere della scelta spetta all'utente. A volte, sono dati privi di metodologie verificabili e corrette, altre volte sono proprio dei falsi».
Richeri ritiene che il diluvio dei dati sia appena iniziato. È un cambiamento profondo e imponente, dove le opportunità superano i rischi, ma che richiede adattamenti culturali, nuove competenze, nuove sensibilità. Come escludere per esempio che, in prospettiva - accanto ai media tradizionali, ai libri, ai giornali, alle tivù - nascano nuove figure di «scavatori» specializzati? O di «verificatori» di dati? Già stanno nascendo. È attraverso questo passaggio che si arriverà, probabilmente, a forme inedite di informazione professionale realizzata per specifiche fasce di pubblico se non proprio per il singolo «lettore» (se vogliamo ancora chiamarlo così).
La prospettiva cambia completamente se da un osservatorio occidentale ci si sposta all'Asia. Richeri è stato recentemente nominato direttore di un osservatorio internazionale dei media all'interno della Communication University of China di Pechino, dove si analizzano giornali, televisioni e siti Internet di tutto il mondo. «Quello che noto - racconta - è che all'interno dei nostri gruppi di lavoro c'è molta libertà, si discute di tutto. Studenti e docenti per esempio si rendono perfettamente conto che l'Occidente critica la Cina per la mancanza di libertà. Ma vedono l'evoluzione democratica del Paese e del suo miliardo e mezzo di persone in un orizzonte diverso dal nostro, consapevoli che il processo avrà bisogno del suo tempo».

Viaggiando nel passato, Giorello paragona il periodo che stiamo vivendo alla prima metà del Seicento inglese, quando si aprì una finestra di fervore politico, religioso e libertario che produsse la diffusione di una stampa popolare a metà tra il religioso e il politico. Resta celebre il caso dei puritani che si infilavano questi libretti, polemici verso la Chiesa d'Inghilterra, sotto la fibbia del cappello. «Anche allora - dice il filosofo - i depositari della cultura tradizionale protestarono. Ma io credo avesse ragione Hume quando diceva che chi si batte per le proprie libertà si batte per le libertà di tutti»." (da Edoardo Segantini, Il metodo Google, "Corriere della sera", 14/06/'11)

Effetto Google

Google Story

Internet ci rende stupidi?

mercoledì 15 giugno 2011

Who Owns Kafka?


"Chi possiede Kafka? si chiede in uno splendido saggio, apparso in uno degli ultimi numeri della London Review of Books la scrittrice Judith Butler. Oltre a essere un esaustivo riassunto della questione che riguarda lo scrittore praghese, ha il pregio, raro, di porre delle questioni di natura filosofica che travalicano ampiamente la singola vicenda per aprire squarci notevoli sugli scopi, l'utilità, i destini della letteratura.
Ma è anche una questione di soldi, non siamo troppo poetici. Dunque, che è successo? Come è universalmente noto, Kafka lasciò i suoi scritti inediti (lettere, prime bozze dei romanzi, romanzi e così via) al fraterno amico Max Brod, sotto la raccomandazione che egli doveva subito distruggerli. L'amico non se la sentì di eseguire la volontà di Kafka (per fortuna!) e procedette alla pubblicazione di alcune opere. Nel 1939 (Kafka era morto nel 1924), Brod, per sfuggire ai nazisti, ripara a Tel Aviv. A sua volta Brod, nel suo testamento, lascia tutte le «carte Kafka» alla Biblioteca Nazionale Israeliana di Tel Aviv. Brod muore nel 1968 (intanto alcune carte kafkiane, prima della sua scomparsa, sono però passate alla Bodleian di Oxford, tra queste il manoscritto della Metamorfosi, il celeberrimo racconto che sarà allegato al Domenicale del 19 giugno) con questa volontà. Eppure il suo patrimonio e il suo archivio (comprendente anche le carte dell'amico Kafka) ora è gestito dalla sua segretaria, e amante, Esther Hoffe che muore all'età di 101 anni nel 2007, e, da lei, passa alle sue due figlie, le oggi settantenni Ruth ed Eva, che hanno intrapreso un'aspra battaglia legale contro lo Stato di Israele sulla proprietà delle carte.
Va rilevato che già qualche anno fa, nel 1998, la Hoffe vendette all'asta a New York, spuntando la favolosa somma di 2 milioni di dollari, il manoscritto del Processo di Kafka, espunto con ogni evidenza dall'archivio di Brod per trarne lucro. Dunque con Kafka c'era da fare i soldi. Il manoscritto finì in buone mani, tutto sommato, al Museo della letteratura tedesca di Marbach. Eppure, già qualche giorno dopo la notizia della vendita del manoscritto, uno stizzito Philip Roth scrisse una tremenda lettera al «New York Times» rivendicando che, sebbene avesse scritto in tedesco, tutto poteva essere Kafka tranne che un autore tedesco. Era un autore della letteratura ebraica. Ed eccoci al nodo che ancora oggi tiene in scacco fior di avvocati in un processo che, davvero, si può a buon diritto ritenere kafkiano a tutti gli effetti. Infatti la Biblioteca Nazionale di Tel Aviv dichiara che le opere di Kafka sono un «asset» del popolo ebraico (già: di chi è la letteratura? Dell'autore? Della lingua in cui è scritta? Del popolo che rappresenta? E Israele – scrive la Butler – rappresenta il popolo ebraico?) e ne rivendica la proprietà, con questa motivazione e con quella, più concreta, che ne sarebbe stata defraudata dal comportamento delle Hoffe. Negli anni passati Tel Aviv aveva anche richiesto il ritorno da Marbach del Processo.
Ma quello ancora in corso riguarda ancora decine di bauli (dislocati tra Tel Aviv e una banca di Zurigo) nei quali si trovano altri manoscritti, lettere, scartafacci e forse un inedito romanzo. Il processo è tutt'altro che vicino alla soluzione. Non possiamo che dolercene e tifare per una composizione, in qualche modo, "pubblica" della vicenda, anche perché Kafka ci appartiene. Proprio a noi. Non in quanto tedeschi o ebrei o cechi. No. È un nostro patrimonio comune, di amanti della letteratura, di lettori. Di esseri umani, direi." (da Stefano Salis, Processo kafkiano alle carte di Franz, "Il Sole 24 Ore", 12/06/'11)

I consigli della scrittrice inglese, Julia Donaldson


"'Leggere insieme ai figli. Leggere a voce alta, con loro, per loro. E non arrabbiarsi mai se non vogliono leggere'. Sono alcuni consigli di Julia Donaldson, scrittrice per l'infanzia, autrice di libri venduti in tutto il mondo come la serie di Gruffalò (EL), denominata Poeta laureato per i bambini in Gran Bretagna, piattaforma culturale di prestigio da cui ha lanciato subito un messaggio radicale: 'Se i bambini non vogliono leggere, lasciate che non leggano', ha detto la settimana scorsa, spiegando che a insistere c'è il rischio di ottenere l'effetto contrario.
Allora, se i bambini non vogliono leggere, i genitori devono assecondarli? 'Non dico che, insistendo, un genitore spinga sempre i figli a odiare i libri. Ma sostengo che leggere, preferibilmente leggere insieme, tra genitori e figli, dovrebbe essere un piacere, non un'attività necessaria, doverosa. Se un bambino ha voglia di leggere, i genitori fanno bene a incoraggiarlo ma non deve diventare un'ossessione'.
Vale anche per gli adulti? E' d'accordo con la famosa esortazione di Pennac, se un libro non vi convince, leggete solo quello che vi va? 'Sì, sono d'accordo, anche se sono cresciuta imparando a finire i libri cominciati - e a mangiare tutto quello che avevo nel piatto. E' inutile fare raccomandazioni, cercare di obbligare o di obbligarsi a leggere, se qualcosa non ti va. Ma i consigli di amici, librai, insegnanti, possono essere utili illuminazioni'.
Si dice che i bambini e i ragazzi di oggi abbiano troppe distrazioni: computer, videogiochi, telefonino. 'Ci sono sempre stati i ragazzi che leggono e queli che non leggono. La mia speranza è che i bambini che imparano ad amare la lettura continuino anche da adolescenti, quando sono sottoposti a maggiori distrazioni'.
Cosa dovrebbero fare i genitori per indurre il piacere, non il dovere, di leggere? 'Quando i figli sono piccoli, leggere loro dei libri ad alta voce. Poi regalare loro dei libri, non solo in occasioni speciali ma così, senza una ragione specifica, o magari prima di una vacanza. E poi portarli ogni tanto in libreria e in biblioteca, abituarli all'idea che è bello e divertente stare fra i libri'.
E che cosa 'non' dovrebbero fare assolutamente i genitori? «Non lamentarsi se i figli non leggono!».
Ma una casa piena di libri può spingere i figli a non leggere, visto che i figli tendono a voler fare il contrario di quello che fanno i genitori. «Può succedere. Ma è solo una fase della vita. I genitori possono avere grande influenza sui figli. I miei bambini si lamentavano delle lunghe passeggiate in montagna che facevano con noi, ma oggi che sono più grandi amano la montagna e le fanno per conto proprio. Lo stesso vale per la lettura».
Ci sono dei libri più adatti a una certa età, è giusto leggere per gradi di difficoltà e complessità? «In parte sì. Ma non servono regole troppo rigide. Anche qui vale il principio che un bambino o un ragazzo dovrebbe leggere quello che si sente di leggere, entro certi limiti, naturalmente».
I nostri figli oggi considerano Zanna bianca, L'isola del tesoro, Piccole donne, I tre moschettieri, troppo lenti, scritti in modo troppo antiquato. Bisogna insistere? «Assolutamente no. È vero che il modo di scrivere è cambiato. Ed è consigliabile fare leggere a bambini e ragazzi libri che ti prendono fin dalle prime pagine. Un consiglio è provare a leggere loro a voce alta i libri che leggevamo noi da piccoli. O regalargli degli audiolibri. O aspettare che I tre moschettieri e L'isola del tesoro li leggano da grandi»." (da Enrico Franceschini, I consigli della scrittrice inglese, "La Repubblica", 15/06/'11)

L'amore per i libri spiegato ai bambini


"'Ordinare di leggere'. O anche 'Trasformare il libro in uno strumento di tortura'. Oppure 'Dare la colpa ai bambini se non amano la lettura'. Sono tre punti fondamentali del decalogo rodariano: le cose assolutamente vietate se non si vuole che i propri figli siano condannati all'odio per la pagina scritta. Da allora sono passati cinquant'anni, e può colpire che una scrittrice raffinata come Julia Donaldson avverta oggi l'esigenza di riproporre lo stesso principio: il verbo leggere non contempla il modo imperativo.
La ripetizione di un principio quasi ovvio indica tuttavia un problema. Che tuttora, nell'educazione dei ragazzi alla lettura, alle categorie della 'libera scelta' o della 'spontaneità' si preferisca il più tradizionale richiamo al dovere. In Inghilterra ma anche in Italia. Le statistiche raccontano che bambini e ragazzi italiani leggono proporzionalmete più degli adulti. 'Ma i libri sono ancora e sempre di più oggetti di impegno/compito e non di desiderio', dice Luisa Mattia, autrice di gialli archeologici molto amati dai ragazzini.
'Le strategie didattiche prevalenti nella scuola primaria', interviene Marco Dallari, ordinario di Pedagogia a Trento, 'lasciano poco spazio alla spontaneità. Spesso gli insegnanti si preoccupano dell'apprendimento più che del piacere di leggere'.
La scuola, in campo letterario, 'tende a formare degli esperti più che degli amanti', sintetizza Marco Pellati, bibliotecario di SalaBorsa di Bologna.
Ma, a parte le discutibili generalizzazioni su scuola e insegnanti, come si fa a trasmettere a bambini e ragazzi il piacere del testo? Questione non nuova, ma oggi drammaticamente attuale.
Intanto la lettura a voce alta. I bambini rimangono affascinati da un adulto che sappia interpretare il testo. E il teatro ci può insegnare molte cose. Oltre a essere titolare di una cattedra di Pedagogia, il professor Dallari fa il cantastorie. Ha scritto canzoni per i Nomadi, le ha pure cantate, e ha fatto esperienza di cabaret. «Cerco di continuare a essere un buon comunicatore e un buon lettore a voce alta. Questo mi ha aiutato a capire che un'esperienza culturale, per risultare interessante e non essere subita come un obbligo, deve passare attraverso il corpo e le pratiche di relazione. In questo l'esperienza del teatro e della messa in scena, che precede storicamente la lettura, può essere preziosa».
La lettura dunque come un atto che coinvolge fisicità e vocalità. E anche come gioco sentimentale-letterario che si instaura tra il bambino e l'adulto. Ne è persuaso un libraio storico di Sarzana, Sergio Guastini, che di mestiere fa il «raccontalibri». Di sera, chiusa bottega, si trasferisce nelle case dei sarzanesi con un trolley carico di trentaquattro libri. «Sono pagine che contengono il virus della lettura», spiega Guastini.
E funziona? «Funziona quando faccio sentire quanto amore ho per quel libro. La lettura non è un rituale freddo, ma un gioco di affetti e di armonie, nel quale genitori dovrebbero riuscirea coinvolgerei figli. L'altro giorno, in libreria, una sedicenne ha chiesto alla mamma di leggerle una favola. La ragazza non era certo interessata al racconto, ma ricercava quella corrente d'amore e di quiete in cui era stata immersa tanto tempo prima».
E secondo Guastini, il gioco sentimentale-letterario deve cominciare subito, nei primi mesi di vita, sostituendo la paperella di gomma con i libri di stoffa. «Con i libri si va in ogni posto», è il motto del libraio, che organizza le notti bianche nei musei e nelle biblioteche.
La lettura ha a che vedere con la scoperta di sé, dunque con la vita. «I lettori più piccoli», racconta Luisa Mattia, «si avvicinano ai libri per avere storie. Quando si trovano davanti a un libro, la domanda che hanno in testa è: "Che storia sei?". E da quella storia si aspettano di essere stupiti, conquistati, portati dentro a una vicenda che gli riveli qualcosa: un carattere, un modo di raccontare, un punto di vista mai preso prima in considerazione».
L'adulto deve saper proporre le storie "giuste", ma mai in alternativa alla playstation, al computer, al web, all'iPod. Lo diceva già Rodari nel 1964, quando non esistevano né computer né il web né Ipod. «Insegnanti, genitori e bibliotecari aggiunge Mattia - dovrebbero smetterla di proporre libri come "luogo" di coltivazione del pensiero, in alternativa al resto del mondo. C'è troppa polvere, spesso, nel comunicare ai ragazzi quanto sia bello leggere, quanto sia intelligente, sorprendente e soddisfacente ... Tutto questo è inutile e controproducente».
Per sconfiggere la resistenza dei più riluttanti, è consigliabile arricchire l'offerta. Come avviene a tavola con i bambini inappetenti. Senza tralasciare, nei casi difficili, una ferma sollecitazione. «Sarebbe velleitario», interviene Dallari, «escludere del tutto una componente di obbligatorietà. Qualunque genitore dice "Mangia!" rivolto al figlio che a pranzo si gingilla col cibo. Nei processi di apprendimento le cose non vanno diversamente. Quest'aspetto però non deve essere centrale, o addirittura l'unico». E così come ci si ingegna per ingolosire i più riottosi con ampia varietà di pietanze, «la stessa cosa si deve fare con i libri, scelti con attenzione agli aspetti emozionali, affettivi, estetici, e non solo alla dimensione cognitiva». In altre parole, quando si sceglie un libro per i propri figli, bisogna essere animati dall'intento di divertirli, non solo di educarli. Ma questi "materiali culturali", raccomanda Dallari, devono essere presentati da adulti che coltivino a loro volta il piacere di leggere, e di commentare le storie lette. Non si può trasmettere una passione che non si possiede. Tuttavia questo vale per i genitori attrezzati, dunque non per tutte le famiglie. La libertà di leggere dovrebbe essere garantita da servizi pubblici efficienti. «La scommessa», dice Pellati, «è non aspettare che i piccoli lettori arrivino in biblioteca, ma andarli a cercare nelle case, anche aiutarli a nascere. In Italia alcune biblioteche pubbliche sono state laboratori di sperimentazione che all'estero ci invidiano, ma purtroppo i tagli finanziari ne impediscono la sopravvivenza». E senza biblioteche e servizi pubblici, a leggere saranno sempre gli stessi. Per obbligo o per piacere, ma sempre pochi." (da Simonetta Fiori, L'amore per i libri spiegato ai bambini, "La Repubblica", 15/06/'11)

Non obbligate i ragazzi a leggere

Così aiutiamo i genitori a far leggere i bambini

lunedì 13 giugno 2011

Labirinto Borges


"Perdersi e ritrovarsi cambiati. Ci si muove con passo lieve e incerto nel nuovo "Giardino-Labirinto" della Fondazione Cini, sull´Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove domani si inaugura un insolito e spiazzante percorso di visita ispirato da Jorge Luís Borges e dal suo racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel venticinquennale della sua morte. Secondo al mondo dopo quello creato nel 2003 in Argentina a Los Alamos, nella provincia di Mendoza, da un progetto risalente ai primi anni Ottanta dell´architetto inglese Randoll Coate, il quale si avvalse anche del contributo creativo dello stesso romanziere, il Labirinto Borges è stato pensato come uno spazio contemplativo in cui il visitatore può immergersi e smarrirsi tra le siepi di tremila piante di bosso, che visivamente riproducono le pagine di un libro aperto, rievocando non solo alcuni fra i temi più ricorrenti nelle opere borgesiane, come il labirinto o l´infinito spaziale e temporale, ma anche tutti i simboli più cari al poeta di Buenos Aires, dal bastone agli specchi, dalla clessidra fino alle tigri. E tutto questo si materializza magicamente sotto le finestre della biblioteca che la Fondazione Cini ospita con i suoi duemila volumi nella manica lunga restaurata da De Lucchi, tra i chiostri storici di Palladio e dei Buora. Proprio qui, nell´unico posto dove potrebbe davvero vivere Il guardiano dei libri raccontato da Borges, la vedova dello scrittore María Kodama, direttrice della Fundación Internacional Jorge Luis Borges, interverrà domani nella serata che precede l´apertura del giardino segreto al pubblico.
Nei giorni bui della cecità del marito, è stata lei la luce dei suoi occhi. Una moglie amorevole e una figura di donna dall´intelligenza vorace, con cui Borges, che si spense a Ginevra il 14 giugno di venticinque anni fa, ha condiviso momenti di rara intensità viaggiando molto alla ricerca del bello. L´onda emozionale che cavalcarono insieme li portò più volte a Venezia, complice anche la viscerale passione di Borges per il tema enigmatico del labirinto, onnipresente nelle sue opere, e quel groviglio di canali e calli deve essersi rivelato al suo cuore come una città straordinariamente onirica. E proprio su un´assolata terrazza che si affaccia sulla Riva degli Schiavoni, si emoziona nuovamente la Kodama, parlando del nuovo Giardino: «Ci sono voluti molti anni di paziente lavoro per riuscire a creare questo "Labirinto Borges" a Venezia - racconta entusiasta - finalmente vedo coronato il mio sogno di fondarne uno in Europa. E il fatto che questo accada a Venezia mi riempie ancora di più il cuore di gioia, perché Jorge l´ha sempre amata profondamente, anche quando non aveva più il dono della vista. Era ipnotizzato dal silenzio delle calli, dal senso di pace che gli procuravano».
La sua morte lasciò in lei un vuoto divorante che ancora non si è colmato, ma la ferma tranquillità con cui affronta oggi l´argomento, lascia trasparire una grande forza interiore. Si irrigidisce, quasi a difendersi, quando le chiediamo quale direzione abbia preso la sua vita dopo quella perdita. «È una questione dolorosa - risponde la Kodama - sento che lui non è mai morto. Non c´è il ricordo, perché c´è ancora la sua presenza che mi sostiene. In questi venticinque anni la mia vita ha seguito una sola direzione: Borges. È stato l´amore a guidarmi».
La voce della vedova di Borges riecheggerà anche domani sera, al chiaro di luna nel Giardino nella Fondazione Cini, contornata dagli ambienti musicali "disegnati" da Pedro Memmelsdorf: «Reciterò una delle ultime poesie che Jorge mi ha dedicato, La luna. È probabile che mi considerasse lunatica di carattere, ma quel paragone nasceva credo dalla calma e dal silenzio che trovava con me». Anche il Giardino-Labirinto di San Giorgio, non a caso, invita il visitatore a cercare risposte in profondità, dentro di sé, attraverso un percorso che ognuno può compiere nella più totale libertà, provando l´ebbrezza di perdersi, o l´ansia di uscirne. Per volere della Kodama, poi, un corrimano in alabastro su cui sarà interamente trascritto in braille El jardín de senderos que se bifurcan, consentirà ai non vedenti di trovare facilmente la via verso l´uscita, risolvendo per primi il mistero." (da Guido Andruetto, Parla María Kodama, vedova del grande scrittore: "Amava questa città anche quando non poteva vederla", "La Repubblica", 13/06/'11)

Ecco perché la letteratura è ancora rivoluzionaria


Pubblichiamo un estratto scritto per Repubblica della lectio magistralis sul tema "Perché scrivere" che Zadie Smith terrà dopodomani al Festival degli scrittori di Firenze.
"Nel suo saggio Perché scrivo, George Orwell ci descrive i "quattro grandi motivi per scrivere". Il primo è il mio preferito: «1. Puro egoismo. Desiderio di apparire intelligente, di far parlare di sé, di essere ricordato dopo la morte, di prendersi la rivincita sugli adulti che ti snobbavano quando eri bambino, e via dicendo. È ipocrita fingere che questo non sia un motivo, e un motivo forte. (...) La grande massa degli esseri umani non è formata da persone intensamente egoiste. Dall'età di trent'anni in poi, o giù di lì, abbandonano quasi del tutto la sensazione di essere individui: e vivono soprattutto per gli altri, o semplicemente schiacciati sotto il peso di un lavoro abbrutente. Ma c'è anche una minoranza di persone armate di talento e forza di volontà che si ostinano a vivere la propria vita fino alla fine, e gli scrittori appartengono a questa categoria».
Dovrebbero stamparlo su delle magliette e distribuirle ai festival letterari. Il secondo motivo Orwell lo chiama "Entusiasmo estetico", e lo intende sia nel senso della percezione della bellezza del mondo esterno, sia di quella delle parole e della loro giusta disposizione. Il terzo motivo è l'"Impulso storico", definito in senso ampio come il "Desiderio di vedere le cose come stanno, di portare alla luce dati di fatto veri e conservarli a beneficio della posterità". L'ultimo è lo "Scopo politico": "Desiderio di spingere il mondo in una certa direzione, di modificare l' altrui concezione del tipo di società alla quale bisogna tendere".
Ciò che mi interessa di questo sistema di classificazione è cercare di capire se in qualche sua parte è ancora valido o meno. Vedo subito un problema con il motivo numero uno: Puro egoismo. Non metto in dubbio la sua esattezza per quanto riguarda gli scrittori. Ma penso che Orwell, se fosse vivo oggi, sarebbe sorpreso nel vedere finoa che punto gli scrittori hanno smesso di essere l'eccezione. Quella grande massa degli esseri umani che "abbandonano la sensazione di essere individui" è in larga misura scomparsa, almeno nel mondo sviluppato. Oggi tutti "si ostinano a vivere la propria vita fino alla fine", a prescindere dalla loro condizione sociale ed economica, e quelle che Orwell avrebbe considerato professioni decorose e onorevoli - l'insegnante, l'infermiera - ora sono viste come lavoro abbrutente. Il desiderio di fama e autorealizzazione è ovunque. E dato che è così, non dovrebbe sorprendere il fatto che quella dello "scrittore" sia diventata una carriera di fantasia. Senz'altro non sono l'unica scrittrice ad aver notato che, quando fa una presentazione in pubblico, la platea non è più piena di lettori. È piena di gente che si identifica con questa parola, "scrittore". Non sono venuti perché hanno letto il mio libro, o altri libri qualunque. Sono venuti perché io sono una scrittrice e anche loro sono scrittori. Per loro, la scrittura ha ben poco a che fare con la lettura. È un'identità, che sembra offrire l'irresistibile e moderna opportunità di fare ciò che sei. Ne consegue, secondo me, che gli scrittori non possono più sperare di definirsi come "persone armate di forza di volontà che si ostinano a vivere la propria vita fino alla fine". Un tempo era possibile guardare con ammirazione un singolo individuo che si esprimeva con onestà compulsiva in una serie di romanzi: osando scrivere ciò che nessun altro osava dire. Era possibile che un libro come Lamento di Portnoy, per dire, venisse accusato di minacciare il tessuto morale dell'America! Oggi Internet è affollata di Roth in miniatura che rivelano tutto a chiunque li voglia ascoltare. Il "Puro Egoismo" un tempo era una caratteristica vagamente mostruosa che pochi avrebbero ammesso di possedere: adesso è diventato praticamente un diritto umano. Perché scrivere? Perché sono uno scrittore! Be', lo puoi gridare forte quanto ti pare, ma sappi che intorno a te lo sta gridando chiunque, e avete tutti lo stesso diritto di usare quella parola. Per reazione a questo assalto di massa alla Bastiglia letteraria, alcuni tentano di difendere i loro privilegi appoggiandosi vigorosamente alla parola "pubblicato", ossia: "Ma io sono uno scrittore pubblicato!" Presto però la distinzione sarà obsoleta, e comunque è un'argomentazione che regge poco. Molti finti scrittori sono pubblicati, e su Internet esistono molti scrittori veri: la contrapposizione non durerà ancora a lungo.
Che dire del secondo motivo, il motivo estetico? Il microlavoro della cura per la bellezza e l'efficacia di una frase sembrerebbe un salutare antidoto alle rivendicazioni pseudospirituali con cui a volte si difende la professione "scrittore". Meglio considerarsi artigiani specializzati. In molti sanno assemblare una sedia alla bell'e meglio: capiscono i principi basilari di una sedia. Ma sono in grado di costruire una sedia ben rifinita come la tua? In un mondo in cui chiunque è uno scrittore e chiunque è "pubblicato", la scrittura deve distinguersi per la sua abilità, per la sua chiarezzae la sua perizia tecnica, e gli scrittori giustificheranno la loro esistenza solo se le loro frasi sapranno ricordarci le vere potenzialità del linguaggio. Può sembrare che questo non sia un ruolo molto nobile o prestigioso per lo scrittore del ventunesimo secolo: forse detto così somiglia un po' troppo a un lavoro abbrutente. Pensando a questi problemi è difficile non cadere in un romantico vittimismo o in una stereotipata disperazione. Sto costruendo una sedia che non vuole nessuno! Perfino Philip Roth - che in pratica ha più persone sedute sulle sue sedie di chiunque altro al mondo - guarda al futuro prossimo con poetica rassegnazione: «Credo che diventerà una specie di culto. Penso che la gente continuerà a leggere ma sarà un piccolo gruppo di persone. Forse più di quelle che oggi leggono la poesia latina, ma suppergiù in quell'ordine di grandezza ...». Ha ragione, ne sono certa - ma questa opinione compiace troppo l'abituale vittimismo degli scrittori. Forse se le nostre sedie non vanno per la maggiore è per altri motivi: magari sembrano superflue, non necessarie.
In questo senso il terzo e l'ultimo motivo di Orwell - "Impulso storico" e "Scopo politico" - offrono la possibilità di costruire una vita da scrittore su basi più solide. Danno allo scrittore un'occasione per rendersi utile, o quanto meno per impegnarsi in un dialogo con il mondo circostante. Il desiderio di vedere le cose come stanno. Lo spiegherò con un'analogia. Recentemente, stavo leggendo su Internet un articoletto satirico sulla pubblicazione ufficiale del certificato di nascita "integrale" di Obama. Sotto la battuta, un Anonimo aveva commentato: "Una vittoria per i sostenitori della dimostrazione empirica!" Io spero che l'Anonimo sia uno scrittore. Tutti gli scrittori dovrebbero essere fermi ed entusiasti sostenitori della dimostrazione empirica. In questo momento storico, in cui la natura stessa di ciò che costituisce una "prova" viene messa in discussione da chi ritiene che lo scetticismo staccato dal giudizio sia di per sé una virtù, è fondamentale che chi si definisce "Scrittore" faccia lo sforzo di dimostrare, nella propria opera, che è possibile essere scettici e allo stesso tempo possedere una conoscenza vera, leggere fra le righe e anche leggere le righe. Ma preparatevi a una bella lotta. Di recente ho avuto un'accesa discussione con un ragazzo convinto che le Torri Gemelle siano state fatte saltare con la dinamite dagli stessi americani. Non credeva ai filmati tv ("Ologrammi!") e non credeva alla mia lunga descrizione dei retroscena, derivata da Le altissime torri, libro del giornalista investigativo Lawrence Wright ("Chi è Lawrence Wright?"). Di lì a poco mi sono ritrovata a snocciolare disperatamente nomi di riviste autorevoli che il mio interlocutore non aveva mai letto ("Cos'è il New Yorker?") e di studiosi e università di cui non gli importava niente, e di giornalisti che avevano intervistato Bin Laden per testate che dal suo punto di vista non valevano nulla. Tutte queste "prove" lui le ha radunate per benino sotto la categoria "Media" e le ha liquidate in un batter d'occhio. Gli facevo pena: "Non crederai mica a tutto quello che dicono i media, vero?" Di base, ero impotente di fronte a lui. "Perché credere che un aereo abbia abbattuto le torri?" si rivela, sul piano ontologico, una domanda molto simile a "Perché credere di essere uno scrittore?" Non si può dare risposta ricorrendo ai canali e ai tramiti accettati in passato: le università, gli organi di informazione, le riviste, le case editrici. Questa nuova forma di scetticismo è semplicemente troppo vasta. A livello epistemologico, siamo tornati a un periodo più arretrato, in cui la gente esigeva di avere un incontro in prima persona con la verità prima di accettarla. Perciò le Hawaii devono disseppellire il certificato di nascita integrale di Obama, e uno scrittore a suo modo deve continuare a dimostrare, frase per frase, che appartiene ai sostenitori della dimostrazione empirica. Oggigiorno uno scrittore deve fare uno sforzo incredibile per contrastare l'enorme massa di realtà false che vengono massicciamente propinate alle persone tramite i loro dispositivi elettronici. Opporre resistenza a questo tsunami di cazzate dovrebbe dare a un giovane scrittore tutta la "motivazione politica" di cui potrebbe mai aver bisogno. In un momento in cui siamo circondati da realtà contraffatte, il desiderio di vedere le cose come stanno è già in sé un atto rivoluzionario. Ma vedere lucidamente non significa vedere univocamente: viceversa, sono le realtà contraffatte quelle che tendono a essere lineari e univoche. Un terrorista è questo. Un immigrato è questo. I sostenitori della dimostrazione empirica hanno il dovere di tentare di complicare il racconto: di rappresentare il mondo in tutta la sua incredibile varietà." (da Zadie Smith, Ecco perché la letteratura è ancora rivoluzionaria, "La Repubblica", 13/06/'11; Zadie Smith, Why Write?, Copyright © 2011 by Zadie Smith, trad. di Martina Testa)

sabato 11 giugno 2011

Elsa mi lesse tutto Aracoeli al telefono


"Ha conosciuto André Gide ad Alessandria d’Egitto. «L’ho letto quasi tutto, compreso
il Journal», precisa Paolo Terni tra i fiori della spaziosa casa romana al Celio, sul tavolo petunie blu-viola, oltre la finestra girasoli gialli, un tripudio di rose, alberi altissimi. Intorno, libri a volontà e due enormi pareti di cd. «Ho speso tutto per acquistare musica», dice la popolare voce di Radiotre, che al Respiro della musica dedica un volumetto appena uscito da Bompiani con una lettera-prefazione del pianista e compositore Ludovico Einaudi. Ma subito ritorna a Gide: «Ricordo con particolare piacere Le retour de l’enfant prodigue, La porte étroite, La symphonie pastorale, Les faux monnayeurs, soprattutto Les caves du Vatican e Si le grain ne meurt».
In francese li ha letti, in francese li cita. «La Francia ha avuto un dominio sulla
mia vita. Chiuse per la guerra le scuole littorie di Alessandria, ai ragazzi italiani non restavano che i salesiani. «Siete pazzi, ne faranno un falegname!», avvertì una signora una notte in rifugio. Fui dirottato al Lycée de la mission laïque française, con professori eccelsi inviati da Parigi per proteggerli dai rischi bellici».
Quando arrivarono i Terni in Egitto? «Una famiglia nobile, come altre di ebrei romani più antiche dei Colonna. Tra gli antenati un grande rabbino di Ancona. Il cognome Terni pare fosse un premio dovuto a unlavoro finanziario per lo Stato pontificio. In un collegio di Firenze il giovane Michelangelo Terni, molto mazziniano, si incontra con il giovane Khedive Ismail futuro re d’Egitto.
Salito al trono, questi affida all’amico l’istituzione della banca nazionale, lo premia con terre ad Alessandria. Nella città si riuniscono esuli mazziniani insoddisfatti del Risorgimento e attratti dalle prime piantagioni di cotone lungo il Nilo, dalla costruzione del Canale di Suez, approdo di gente che ha voglia di futuro, libertà, soldi. Formano una comunità aperta, con ospedale, scuole, cimitero. Un’epopea bellissima».
Ideali, utopie, soldi. Anche libri? «Il bisnonno sposa Linda Coronel, figlia di un armatore portoghese, ricchissima, di intelligenza strepitosa. Si secca alle riunioni di famiglia, si ritira scusandosi: “Devo finire di leggere certi dialoghi di Platone”».
Eredita da lei la passione per la lettura? «Per me leggere è vitale. Ho letto biblioteche».
Cominciamo dall’infanzia adolescenza. «Un ruolo centrale ha avuto Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, ne so parte a memoria, in inglese. Ho divorato Maurice Leblanc e le avventure di Arsène Lupin. Dell’amatissimo Dickens provo particolare affetto per i Pickwick papers e per le immani risate che il suo profondo umorismo ha suscitato in me».
Era la scuola a suggerire le scelte? «Scuola e famiglia. Al Lycée Français mi fu affidata la presentazione ex cathedra di Candide ou l’optimisme di Voltaire. Con Le grand Meaulnes di Alain-Fournier scoprii la relazione tra il quotidiano e l’onirico. Con Les Misérables cominciai a provare orrore per l’ingiustizia, la burocrazia, il potere cieco e arrogante. Ammiravo i ritratti fulminei di Victor Hugo, i contrasti, l’ironia».
Proprio nessun autore italiano? «Soltanto Salgari. Era insopportabile il Manzoni spiegato dal professore di italiano arruolato da mio padre perché mantenessi contatti con la nostra terra. Avrei scoperto I promessi sposi più tardi, imparando a conoscere bene il nostro Ottocento musicale. Poi lavorando con Mauro Bolognini alla riduzione tv della Certosa di Parma, da Stendhal, ho capito la materia dalla quale partiva la ricerca di Manzoni: quei laghi, quell’impegno linguistico, quella moralità».
I suoi picchi letterari di allora? «I ragazzi terribili di Cocteau. L’incessante corpo a corpo con Proust. Il colpo di fulmine per Musil: L’uomo senza qualità mi ha accompagnato per anni nelle vacanze a Stromboli».
Il trasferimento in Italia influì sulla scelta degli autori? «Arrivai nel 1951 a Roma. Il nonno Enrico Terni mi leggeva Les enfants du Capitaine Grant di Verne. La scrittrice Fausta Cialente, da lui sposata in seconde nozze, mi leggeva Conrad, Kipling e il duello della mangusta Rikitikitavi con il serpente. È questa nonna che più tardi mi farà scoppiare un amore a prima vista: il Pasticciaccio. Da quel momento divorerò Gadda».
E con Gadda finalmente apprezzò la nostra lingua? «Ad Alessandria non l’amavo,mi
sembrava improponibile un confronto tra il francese che studiavo, da Ronsard a Mallarmé, o ascoltavo alle recite della Comédie Française in tournée - Racine, Molière, Giraudoux - e l’italiano dialettale del pur grande Totò al cinema. Gadda e poi Giorgio Manganelli mi avrebbero riconciliato con la nostra lingua come ricerca e invenzione costanti».
Finché la sua vita non s’intrecciò con casa Einaudi. «Stavo leggendo Thomas Mann
- Doktor Faustus e La montagna incantata, acquistati a fatica in libreria - quando scopersi il meraviglioso servizio rateale Einaudi: un mito, una continua provocazione intellettuale, sempre un passo avanti rispetto al “dibattito”».
Da ragazzo cliente, ne diventò collaboratore. «Ero in Sardegna, presso Oristano,
interprete traduttore in una specie di kibbutz dove si studiava il fattore umano dello sviluppo economico. Una pubblicità sul Giorno: “Giulio Einaudi spa cerca public relation officier”. Mi indignò quel linguaggio e lo scrissi all’editore. Pochi giorni dopo mi trovo davanti a lui, Bobbio, Bollati, Mila, Raniero Panzieri seduti al famoso tavolo ovale. Avrei diretto la Biblioteca civica Luigi Einaudi
a Dogliani, esperienza da cui nacque la fortunata Guida la formazione di una biblioteca».
... e il matrimonio con la figlia dell’editore. «Ida lavorava all’Einaudi di Roma,
aveva avuto un problema sentimentale. Giulio la portò a Torino, me l’affidò. Un castigo, mi interrompeva le vacanze. Molto bella, timida, mi si rivelò affine,
complice, con valori fondamentali forti, l’impalcatura etica che cercavo. La mia vita è stata bella per quel privilegio, per la gioia infinita di quel grande amore».
Roma, via Gregoriana 38, un atelier letterario. «Ida Einaudi ne era il perno. Lavoravamo accanto a Natalia Ginzburg, Calvino, Elsa Morante: l’ho aiutata nei momenti culminanti di La storia, mi ha letto al telefono tutto Aracoeli. Ho molto amato Primo Levi come persona e come scrittore».
In tutto questo mare, qual è il suo capolavoro di riferimento? «I racconti di Edgar Allan Poe nella sublime traduzione einaudiana - goduriosa, sapida e rivelatrice!
- di Manganelli».
Chi rilegge più spesso? «Ogni volta che posso, Simenon, Conrad e James».
Che cosa non ama più? «Trovo ormai invecchiate e anche noiose le opere di Agatha
Christie che per anni ho divorato. Non ho mai apprezzato Malaparte. Credo mi deluderebbe rileggere oggi André Gide».
La coinvolge la contemporaneità letteraria italiana? «Poco, ma seguo con particolare
simpatia il nuovo filone sardo, dal giovane Wilson Saba - Sole&Baleno, Giorni migliori - a Sergio Atzeni, Marcello Fois, Michela Murgia».
Ha un modello di cultura musicale? «Luigi Magnani, l’unico modello italiano cui mi sono ispirato. Penso a Beethoven lettore di Omero, ai Quaderni di conversazione,
al Nipote di Beethoven, alla Musica in Proust. Mi indigna che le opere di questo grande letterato musicale siano da decenni esaurite. Scusi, ma mi ha davvero acceso una miccia nella mia coscienza»." (da Alberto Sinigaglia, Elsa mi lesse tutto Aracoeli al telefono, "TuttoLibri", "La stampa", 11/06/'11)