mercoledì 30 marzo 2011

Diventare scrittori: Silvia Ballestra


"Quando penso, oggi, alla scrittura creativa, non mi vengono in mente le esperienze americane dei corsi di creative writing con insegnanti illustri e discepoli altrettanto illustri poi pubblicati qui da noi e avidamente letti, né le scorribande fra le varie bibliografie. E neanche i laboratori, i seminari, i convegni, ecc. Mi piace invece anzitutto ricordare, fra le esperienze per me più formative, le indicazioni che ho ricevuto alle scuole elementari. Erano gli anni Settanta, anni di sperimentazione e democratizzazione della scuola, del fondamentale lavoro di autori come Mario Lodi, con il libro collettivo Cipì, e Gianni Rodari, con le eversive Filastrocche in cielo e in terra, e il primo approccio con la scrittura ebbe per me un titolo emblematico: il «testo libero».
Nel testo libero, a volte graziosamente chiamato pensierino, potevi parlare di te e di quello che ti succedeva attorno senza dover sottostare a regole particolari, senza ancora rattrappirti nelle colonne del foglio protocollo, certo di trovare un lettore attento e partecipe che avrebbe segnalato, ma non punito (anzi a volte sottolineato con divertimento, come qualcosa che ti colpisce e scarta sorprendendoti), l'errore o lo sgambetto del dialetto. Produssi una discreta quantità di testi liberi, confrontandomi col passare delle stagioni, con la nascita di una cucciolata, poi scrissi una lettera minatoria a mia madre che si rifiutava di comprarmi un palloncino: la scrittura aveva del miracoloso e la potevi usare per gli scopi più diversi. Per celebrare la natura, per esempio, o esprimere emozioni, o lanciare invettive. Era qualcosa di liberatorio che portava fuori i pensieri e si lasciava condividere.
La maestra cominciò a leggerci - ad alta voce - L'isola del tesoro di Stevenson: lo faceva nel tempo che restava prima dell'uscita, come una sorta di esercizio di decompressione, ma il suono della campanella troncava a metà una descrizione, un'azione. Come andava a finire? Che avrebbe fatto quell'orrido marinaio? Che diavolo c'era dentro il baule? Decisi allora di comprare coi miei risparmi una copia tutta mia e quello fu il primo di tantissimi altri libri. Creammo poi un «quaderno collettivo» che passava di mano in mano fra i bambini e sul quale, chi voleva, poteva scrivere i suoi testi in una sorta di antologia in progress. Non era richiesto da molti ma si poteva tornare a scriverci, a volte proprio ispirandosi ai testi prodotti dai compagni.
Più tardi sarebbero arrivati altri esercizi di scrittura: i temi sull'attualità, la lettura dei quotidiani, le versioni da altre lingue. Sempre di scrittura si trattava, ovviamente, ma più strutturata, regolare, in qualche modo «ordinata», inquadrata. Un po' prigioniera, insomma, sottoposta a norme e misure. La scrittura creativa, invece, sarebbe riapparsa tanti anni dopo. Dopo anni di forsennate letture ma stavolta lontane dalla scuola - e dunque americani, i grandi del Novecento: Hemingway, Steinbeck, Fitzgerald, Salinger, e i visionari beatnik, ma pure i francesi e i russi del secolo prima - che mi avevano confermata in un rispetto quasi sacrale, sicuramente pudico, verso la scrittura, un'attitudine giusta però anche paralizzante da cui non si riusciva a spostarsi facilmente.
Il salto dalla lettura alla scrittura, insomma, adesso che c'era la consapevolezza della complessità delle opere, non era più così ovvio e felice come un tempo; non si scherzava più tanto facilmente con la lingua, non bastavano gli accenni, c'erano dei colossi inarrivabili a segnare la via. Eppure, la scrittura creativa riapparve, e di nuovo sotto forma di invito, come all'epoca dei maestri veri e propri. Si trattava del progetto Under 25 curato da Pier Vittorio Tondelli, «un'inchiesta letteraria sui ragazzi italiani nati dopo il 1960», come recitava il sottotitolo, consistente in una serie di antologie di scritti prodotti da giovani e inviati per posta alla casa editrice Transeuropa. Avevo comprato a Bologna, città dove vivevo per i miei studi universitari in Lingue, il secondo volume Belli & Perversi e avevo notato l'assenza di ragazze. Mi precipitai a cercare anche il primo volume, Giovani blues, uscito l'anno prima, e vi trovai un'introduzione dello stesso Tondelli assolutamente illuminante. Mentirei se dicessi che non mi importava tanto della eventuale possibilità di vedersi pubblicati, ma quel che più mi colpiva - e suonava come un potente invito, un richiamo sempre più convincente - erano le sue osservazioni sugli scritti dei ragazzi, sui diversi toni e linguaggi, sui temi, sul come fare e cosa fare, la sua onestà e interesse veri a mettersi in ascolto di chi cominciava o (pensavo, visto il mio caso) esitava a cominciare. Quell'introduzione fu la mia prima cassetta degli attrezzi. Tondelli raccontava di quando aveva cominciato lui, con Aldo Tagliaferri, il mitico editor della Feltrinelli, e di come avesse, da subito, dovuto riscrivere. Lo stesso capitò a me. «Quante stesure hai fatto di questa storia?», mi chiese Massimo Canalini, l'editor della Transeuropa che aveva ricevuto i miei racconti Under 25. Ecco, se la prima lezione di scrittura è Scrivi, di sicuro la seconda è Riscrivi.
Se si vuole continuare, almeno. La freschezza, la velocità, l'urgenza sono il soffio vitale che ti fa partire, ma dopo bisogna proprio mettersi lì a limare, pensare, cercare il dettaglio, lucidare la pagina finché non ti sembra che brilli anche al buio." (da Silvia Ballestra, La maestra ci diede un tema: fu una gioia, "Corriere della Sera", 26/03/'11)

Poetry


"Ci vuole un bel coraggio oggi per realizzare un film in cui la parola che ricorre con maggiore frequenza è «poesia». E non importa se si è italiani, americani o, come Lee Chang-dong, coreani. «Come immagino stia accadendo anche in tanti altri paesi anche nella società coreana la poesia sta perdendo sempre più importanza», spiega Lee Chang-dong. «Alcuni scettici criticano la poesia dicendo che non potrebbe certo darci da mangiare». E questa l'abbiamo già sentita: tutto il mondo è paese, si diceva una volta. Così Lee Chang-dong, 56 anni, insegnante, poeta e romanziere, ex ministro della cultura, regista premiato a Cannes e Venezia, sfacciatamente ha addirittura titolato Poetry il suo film. Il quale, fresco vincitore degli Oscar asiatici (dopo essere entrato nel palmarès dell'ultimo Cannes), esce il primo aprile nelle nostre sale distribuito dall'indipendente Tucker Film. «La poesia sta morendo», dice il regista. «È questo il motivo principale per cui ho girato il mio film. Naturalmente non mi riferisco alla poesia solo come forma letteraria, la poesia consiste anche nella ricerca di una bellezza invisibile ai nostri occhi, nella ricerca delle verità nascoste intorno a noi e serve a porci domande sulla nostra esistenza». Questo compito, nel film, il regista lo assegna a Mija, un' anziana signora che scopre di essere affetta da Alzheimer e, prima di precipitare nell'oblio, si impegna a cercare il senso delle cose prendendo lezioni di poesia. Sarà questa ricerca ad aiutarla a prendere la decisione giusta quando scopre che il nipote adolescente ha partecipato a uno stupro di gruppo che ha causato il suicidio della vittima. «Il film parla anche delle relazioni fra le generazioni. Volevo capire quali fossero i metodi di comunicazione usati dai giovani» dice il regista «Mija non può comprendere suo nipote né comunicare con lui, che rappresenta un mondo in cui lei non esisterà più. E la tv pare diventata l'unico interlocutore di questi giovani». In questo è impressionante l'analogia di comportamenti che unisce la società coreana alla nostra. Quando i genitori dei ragazzi del branco cercano di mettere a tacere tutto pagando la madre della ragazza suicida non facciamo fatica a credere che potrebbe succedere anche da noi. «Credo che in generale sarebbe questa la reazione comune per un genitore, non solo nella società coreana», ammette Lee Chang-dong «Gli uomini in particolare troppo spesso ignorano la questione delle violenze sessuali con eccessiva tranquillità. Anche se la mia intenzione era piuttosto mettere l'accento sullo strano rapporto che spesso intercorre fra la nostra vita e la moralità». Da ministro della Cultura del suo paese, Lee Chang-dong racconta di essersi battuto «per cambiare la percezione che la cultura dovesse dipendere dall'economia. Penso che il governo di un Paese non dovrebbe mai operare tagli drastici, ma finanziare la cultura senza lederne l' autonomia e rispettare le regole. Il pericolo da evitare è che la politica pretenda di intervenire troppo in cambio dei finanziamenti»." (da Aldo Lastella, Fra poesia e violenza sarà la cultura a salvare l'Occidente, "La Repubblica", 25/03/'11)

martedì 29 marzo 2011

L'editoria italiana per i più piccoli si mette in mostra a Bologna e conquista il mercato globale


"Sarà un certo diffuso gusto vintage per gli anni Ottanta, l'età più brillante della narrativa per ragazzi in Italia, quando le case editrici erano impegnate a costruire i loro cataloghi pescando il meglio nel mondo e facendo largo agli scrittori italiani; sarà, più semplicemente, uno sguardo lucido ai portafogli, i propri (nel senso di patrimonio da rimescolare) e quelli dei genitori, poco disposti a spendere quindici, sedici euro per un solo libro ingiacchettato in un inutile vestito della festa: però il ritorno dei tascabili corre come un tacito passaparola tra gli editori italiani per i più giovani questa primavera, anche se poi, e per fortuna, le declinazioni sono tutte diverse, e ancora una volta, come in quegli anni formidabili, c'è posto per tutti, se ciascuno lavora con un progetto chiaro in testa, senza sbirciare troppo nell'orto del vicino, pensando semmai a mutare in valore la propria identità.
Piemme pone mano ai classici, da Tom Sawyer a Piccole donne a Black Beauty, facendoli introdurre da svelte paginette firmate Mino Milani, Teresa Buongiorno, Lia Levi, e ficcando nelle pagine colonnini di approfondimento («I classici del Battello a Vapore»); Einaudi Ragazzi gioca la «Carta bianca» dell'avventura vissuta pericolosamente, basta con le polverine magiche, apriamo la porta alla realtà e guardiamoci intorno vigili, con romanzi di Baccalario, Varriale, Peduzzi; Feltrinelli apre con Il buio oltre la siepe (ah, avere un papà come Atticus Finch) le sue Grandi letture, pescando nel catalogo della narrativa contemporanea i romanzi di cui possono impossessarsi con gusto i lettori più giovani (oltre a Harper Lee, D'un tratto nel folto del bosco di Oz, e Omero, Iliade di Baricco); e altri cantieri sono ancora in corso ma già in piena attività.
Questo, e molto altro, si vedrà a Bologna da lunedì 28 a giovedì 31 marzo per l'edizione numero 48 della Fiera del libro per ragazzi (ospite d'onore la Lituania), appuntamento-chiave per gli operatori di un mercato che, alla maniera dei suoi destinatari, continua ad avere voglia di crescere. Oltre milleduecento espositori in rappresentanza di 55 Paesi vuol dire quattro giorni di serrato affarismo affabile che conosce tregua solo la sera fuori dai padiglioni, in città, tra feste e mostre. Tanti gli appuntamenti in Fiera per bibliotecari, insegnanti e studiosi, critici, traduttori e illustratori; gli autori si ritrovano per una volta alle prese con un pubblico tutto adulto, mentre gli editori trottano tra gli stand, pencolando tra l'entusiasmo e il calcolo; ed è sempre più folto il manipolo di grandi agenti da grandi che decidono di presidiare il mercato non piccolo dei piccoli.
Staffetta di scrittori e illustratori (tra le punte Bernard Friot, Brian Selznick, Aidan Chambers, Silvana Gandolfi) mercoledì 30 nella bella cornice di Salaborsa, la biblioteca centrale, una raffica di proposte messe insieme dagli editori per ragazzi dell'Associazione Italiana Editori facendo rete con la Fiera stessa – che con dispiacere non replica la kermesse di Bolibrì – e con la libreria Giannino Stoppani.
Tornando in Fiera, balza all'occhio la rarità di esordienti o giovani scrittori italiani. Sulle nuove copertine brillano nomi noti, se non notissimi; e quasi tutti sopra i quaranta. Dove sono finiti gli altri? Che cosa stanno facendo? Sono gli editori a ignorarli, a non avere la pazienza di crescerli, o forse sono loro che preferiscono scrivere libri per ragazzi da pubblicare come libri da grandi? Bianca come il latte, rossa come il sangue di D'Avenia, Io e te di Ammaniti sono veramente libri per adulti? E con questo interrogativo entriamo nella perigliosa terra di mezzo dei romanzi per l'adolescenza lunga che va dai tredici ai vent'anni, dove lapidi, vampiri e angeli spiumati si contendono ancora il campo, ma le proposte degli editori stranieri, americani in testa, si concentrano su un genere ancora poco esplorato: la fantascienza andata a male, la distopia.
A poche settimane dalla catastrofe del Giappone si intiepidisce la voglia di indulgere in queste visioni che mettono più paura, adesso che non sono così remote; ma i romanzi apocalittici hanno qualcosa in comune con i fantasy, la creazione di mondi paralleli che piace tanto ai lettori adolescenti, e quindi è possibile che il fascino cattivo di questi lunghissimi, complicati periodi ipotetici guadagni terreno.
Qualche pioniere ci ha già provato: brilla per originalità, ad esempio, il severo Méto, la casa di Yves Grevet (Edizioni Sonda), dove ragazzi con nomi da antichi romani vivono in una sorta di collegio tutto maschile cercando disperatamente di restare piccoli, perché quando crescono succede qualcosa di oscuro. Andrà affrontato; tutti i protagonisti dei romanzi distopici sono combattenti, neogladiatori armati contro il nulla. E anche quando vincono, il mondo non si aggiusta più. Sopravvive chi si adatta al cambiamento. Una lezione amara, che salda il futuro alla preistoria." (da Beatrice Masini, L'editoria italiana per i più piccoli si mette in mostra a Bologna e conquista il mercato globale, "Il Sole 24 Ore", 27/03/'11)

lunedì 28 marzo 2011

Ternitti


"Ternitti è la versione dialettale pugliese di "eternit", il micidiale materiale costituito da una mescola di cemento e di fibre di amianto, usato in genere per la fabbricazione di lastre di copertura, prefabbricati, tubi, ecc. Ma anche, sempre in dialetto pugliese, è l'equivalente, di "tetto" (ma "eternit" allude anche, con tragica presa in giro, a "eterno", quello che non muore mai: mentre qui non si fa che morire). E in effetti, tra una fabbrica svizzera di eternit, dove lavora un nutrito gruppo di operai italiani e of course pugliesi, e il tetto di un cravattificio sito in territorio pugliese, si svolge l'intera vicenda di Ternitti, nuovo romanzo del giovane scrittore pugliese Mario Desiati (nato nel 1977, sicché l'espressione giovane scrittore non è, come ormai capita sovente, solo metaforica), apparso da Mondadori. Mi accorgo di aver usato più volte, in queste poche righe, la specificazione "pugliese". È avvenuto casualmente, ma non senza ragioni. Anzi, la prima cosa da dire è questa: Desiati, - almeno per quanto ci ha fatto vedere finora, - è avvinto in maniera quasi ossessiva alla sua terra d' origine, la Puglia, più precisamente quella parte della Puglia, che quasi sembra precipitare e immergersi nel Mediterraneo, stretta dal mare sia ad oriente sia ad occidente, fino a formare quello che gli italiani chiamano "il tacco" della penisola, terra di paesi dai nomi incantati, Tricase, Andrano, Ruffano, Leuca, Torrepaduli ... Il misto inesauribile di realtà, - anche la realtà più povera, disgraziata, violenta, - e di favola, - una favola carica di sensi misteriosi, magici, - che caratterizza il mondo poetico di Desiati, nasce dalla inesausta contemplazione e dalla profonda metabolizzazione, densa di suggestioni, di questo mondo arcaico, originario, il mondo in cui risuona, per usare le parole dello stesso Desiati, la "voce delle madri", "la voce degli antenati": la voce che, da lontano, arriva e può recare "in dono", inaspettatamente e qualche volta anche inspiegabilmente, "la salvezza".
Tempo fa ascrissi Mario Desiati a quella nouvelle vague della nostra narrativa, che si faceva portatrice di un'istanza di nuovo realismo italiano. Ternitti ci consente di precisare meglio questo giudizio. Ternitti è, classicamente, una storia di amore e di morte, - anzi, per restare nell'ordine sostanziale che la storia c' impone, - di morte e di amore. L'amianto, lavorato imprudentemente in una fabbrica svizzera, conduce implacabilmente alla morte quanti, - in primo luogo gli operai pugliesi, che sono fra i protagonisti di questo racconto, - hanno avuto a che fare con il demoniaco composto. Nelle sette sezioni di cui il libro è formato, anche cronologicamente ordinate (sono trentasei anni di storia, dal 1975 al 2011), la scomparsa degli uomini, - e poi delle loro donne che hanno contratto il contagio dai loro vestiti e dalle loro pelli, - è seguita con l'angosciosa certezza della scomparsa. In direzione contraria, - e sia pure disordinatamente, confusamente e disperatamente, insomma come si può, - si muove l'amore, che lotta contro la dissoluzione, il distacco, la perdita, e alla fine, anche se forse proprio nel momento in cui è diventato inutile farcela, ce la fa. A interpretare il ruolo della "passione", che è «contagio felice, un germe trasmesso da chi si ama», - ruolo che nel Paese delle spose infelici (Mondadori), il precedente romanzo di Desiati, era stato di un altro personaggio straordinario, ANNALISA D'EFEBO (tutto in maiuscolo perché traiamo i dati da una lastra tombale), viene caricato ora sulle spalle esili ma profondamente seducentie robuste di Domenica Orlando, la bimba-ragazza-donna, la figlia-madre-amante, alle cui infinite capacità di avventura e di sopravvivenza si deve se la compagine umana prefigurata, invece di sfaldarsi e dissolversi, tiene. Ora, tutto questo, me ne rendo conto, avrebbe poco senso, se non si dicesse l'essenziale. Desiati lavora alla sua materia come sospeso a mezz'aria: da una parte c'è la realtà nuda e cruda, disincantata e feroce; dall'altra c'è un vento fantastico che la raccoglie e le dà un senso e, senza toglierle verità, le conferisce il ritmo e le movenze di un'antica fiaba, di una canzone popolare, di un sussurro scambiato fra amanti nel buio. È questo amalgama stilistico, fra realismo e poesia, fra narrazione e folgorazione, che fa il bello della prosa del nostro giovane scrittore. Non stare né qui né lì, ma contemporaneamente da tutt'e due le parti. Può anche darsi che in certi brevi momenti l'amalgama si smagli e si avvertano cedimenti nel delicato organismo (o troppo realismo cronistico, documentario e magari di denuncia o troppa invenzione, gratuita in quanto oltre i limiti delle situazioni e dei personaggi). Ma la soffice cantilena affabulatoria del narratore, il suo stare sopra le cose, guardarle dall'alto con affetto, e contemporaneamente dentro, nella loro buia, inquietante profondità, sovrasta tutto, e fa l'unità del libro. Ed è ciò che serve per goderselo come merita." (da Alberto Asor Rosa, Pane amore e lotte, il realismo poetico che racconta l'Italia, "La Repubblica, 26/03/'11)

sabato 26 marzo 2011

Mario Lodi maestro


"Con Mario Lodi maestro, a cura di Carla Ida Salviati, edito da Giunti, ritorna la possibilità di ascoltare le voci dei bambini del Vho, e raddoppiare anche un’inevitabile constatazione: nessuno come Mario Lodi ha saputo dar voce ai suoi scolari, loro sono qui, a stupirci con l’incantata alterità del loro discorso, collocati nel 1951, nel 1952, ma sottratti alla Storia, oppure da sistemare entro un’altra storia.
Fin dal 1928, Felice Socciarelli, con Scuola e vita a Mezzaselva, allora edito dall’Associazione per il Mezzogiorno, raccontò la sua vicenda di maestro in una scuola dell’Agro Romano, cominciata il 22 ottobre 1919. Ci sono molte fotografie, nel suo libro, e appaiono indispensabili, perché i «bambini mezzaselvesi», con i loro cappelli «da grandi» e i panni entro cui sono più o meno infagottati, non sono propriamente immaginabili.
Allievo di Giuseppe Lombardo Radice, attento alla sua colta innovazione pedagogica, Socciarelli non si meraviglia che la sua scuola sia una capanna, perché tutta Mezzaselva è fatta di capanne e riproduce invece lo scritto del suo scolaro Quintillio, saggio e preciso come quello di un antropologo: «So ito a vedere quelli che falciano la prata pare che non fadigano gnente e invece se straccano tanto». L’edizione del 1954, di La Scuola di Brescia, mostra Felice Socciarelli come era nel 1951 poco prima di morire: ha proprio l’aria di un etnologo, di un esploratore di terre lontane, affaticato ma non vinto. Due maestri che erano anche apprezzati pittori, Italo Cinti di Bologna e Federico Moroni di Sant’Arcangelo di Romagna, ci hanno lasciato, con Diario di un anno e con Ricordi e amnesie, due splendide testimonianze sulla quotidianità del maestro artista. Moroni, realista minuzioso, fa lavorare i suoi bambini con chine e pennini perché scoprano l’anima delle cose e diventino custodi di una civiltà che le macchine stanno annullando, Cinti, aeropittore futurista, conduce le sue classi alla scoperta di estasi coloristiche vicine ai fauves: entrambi sono cronisti minuziosi di quello «stupore infantile» descritto da Zolla.
Nel 1957, quando esce la prima edizione del Diario di una maestrina di Maria Giacobbe, l’editore Laterza lo fa precedere da una prefazione di Umberto Zanotti-Bianco che è necessaria e puntuale. Infatti la «maestrina» insegna in quelle zone della Sardegna dove in quegli anni ci sono i «banditi di Orgosolo» resi famosi dalla stampa e dal cinema, e l’insegnante sa di dovere lottare con i suoi alunni non in vista di un esito scolastico, sempre considerato con scrupolo e con rigore, ma pensando a un riscatto sociologico di cui pone le basi proprio con questa sua opera sapiente, poetica e battagliera.
Sempre dalla Sardegna proviene Le bacchette di Lula di Albino Bernardini - noto poi per Un anno a Pietralata -, edito da La Nuova Italia nel 1969: il capitolo Sesto, La bacchetta, si offre sempre a una lettura dolorosa e struggente, perché è quello in cui i nuovi alunni conducono il nuovo maestro a vedere l’abbondante provvista di bacchette con cui li deve picchiare e restano sconcertati quando scoprono che lui non sa nulla di quella pratica torturatoria sulla quale il precedente insegnante fondava interamente la sua pedagogia e la sua didattica.
Un’impressione non positiva, fra noi insegnanti di allora, aveva prodotto Il maestro di Vigevano, edito da Einaudi nel 1962: ai maestri del mio Circolo Didattico sembrava che Lucio Mastronardi cercasse lo scandalo quasi con i toni delle riviste scandalistiche di allora e, certo, pur parlando di scuola, pur mostrando buona conoscenza di corridoi, coefficienti di anzianità, gerarchie, scatti di stipendio, il maestro che racconta sa poi solo odiare, isolarsi, deprimere e deprimersi.
Ci fu anche una curiosa coincidenza editoriale, perché Garzanti pubblicò proprio allora Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto nel 1907, un autentico capolavoro, scritto da un maestro russo laureato in pedagogia, dove la scuola zarista è piena dello stesso infernale «catrame dell’anima» così abbondante nelle aule di Vigevano.
Non mi è mai apparsa tollerabile la studiata sottovalutazione pedagogica di cui è stato reso vittima Ricordi di scuola di Mosca, edito da Rizzoli nel 1939. Giornalista, umorista, direttore di giornali, disegnatore saporoso e riconoscibilissimo, Mosca ha forse sofferto di una lettura prevenuta e fuorviante, perché il maestro l’aveva fatto davvero e il capito intitolato La conquista della V C, mi ha sempre ricondotto alle conquiste delle mie numerose quinte, in una sorta di complicità tra maestri che mi induce a ritornare spesso ai Ricordi di quello sconcertante collega, così abile nel far ridere, così preciso nel rendere i tipi e le situazioni.
Non è ricordato, riproposto, riletto come dovrebbe essere, I racconti della Rustica di Sabrina Manes che Guaraldi stampò nel 1973. La Rustica è una borgata romana e l’autrice, dando la parola ai suoi scolari, fa davvero comprendere tutto, transitando dalla tenerezza allo squallore, dalla rabbia più incontenibile a brandelli di autentica poesia.
Di Anna Fantini sono stato collega e amico sia nell’insegnamento elementare che in quello universitario, così quando leggo e rileggo Dare di sé il meglio, edito dai Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche nel 2001, ritrovo l’estro, la simpatia, l’eleganza di questa maestra incredibilmente dotata che guardava alla scuola con occhio poetico, spingendo tutti davvero a dare di sé il meglio.
Nell’anno pieno di ricorrenze, di convegni, di bandiere, di mostre e di rassegne, forse un posticino riservato, nel contesto di qualche celebrazione, ai maestri che hanno dato voce ai loro scolari, sarebbe utile e opportuno.
Nei libri che ho citato, infatti, non c’è solo l’Italia bambina pur meritevole di partecipare alla storia del nostro Paese. C’è la vicenda dello sguardo, c’è la trama secolare di infiniti tentativi: non è calato il silenzio su queste voci, su queste intelligenze, su queste alterità. Hanno avuto i loro ottimi cronisti, questi bambini: dopo sono venute gradevoli parodie o tentativi ideologici di rapportarsi alla scuola che non si collegano alla tradizione fin qui ripercorsa. Restiamo in attesa di un giovanissimo Socciarelli, che probabilmente già si intravede nel nostro futuro.

TITOLI E CONVEGNO
Mario Lodi maestro, a cura di Carla Ida Salviati per la Giunti, ci restituisce in forma antologica C’è speranza se questo accade a Vho (uscito nel 1963 da Einaudi e ora abbandonato), accompagnando quelle pagine così antiche, ormai storiche, con fotografie, note critiche e una partecipe intervista al maestro che diventò l’alfiere in Italia della scuola attiva e della «cooperazione educativa».
Un video su Lodi sarà proiettato al convegno "Maestri scrittori, maestri lettori, maestri educatori" che si terrà alla Fiera di Bologna il 30 marzo, h. 16. Vi prenderanno parte, coordinati da Silvana Sola e introdotti da Giovanni Solimine: Vinicio Ongini, Yvet Grevet, Luisa Mattia e Cristina Petit, che pubblica ora con Il castoro, Maestrapiccola. E’ il diario di un anno scolastico nato dall’omonimo blog, la quotidianità minuta dei bambini tra e oltre i banchi, i pensieri, le domande, le visioni, così semplici, così sorprendenti." (da Antonio Faeti, I maestri, cronisti dell'Italia bambina, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/03/'11)

venerdì 25 marzo 2011

Vendetta! di Marie Corelli


"Nel 1994, Tim Burton ha dedicato un film a Ed Wood, il peggior regista della storia: il genio omaggiava con crudele tenerezza un uomo strambo e mediocre che però aveva amato infinitamente il cinema. La scrittrice inglese Marie Corelli fu considerata dai suoi contemporanei, se non la peggior scrittrice della storia della letteratura, "una donna di deplorevole talento", che purtroppo riteneva di essere un genio. I suoi libri furono derisi come pasticci volgari e kitsch e lei condannata al feroce silenzio che giustizia le nullità. Eppure, come un fantasma, o uno dei resuscitati e immortali protagonisti dei suoi libri, Marie Corelli non muore mai del tutto e ogni tanto ritorna: dal 16 marzo è in libreria il suo secondo romanzo, Vendetta!, pubblicato dalla casa editrice romana Gargoyle Books, specializzata in narrativa horror, fantasy e gothic.
Nonostante le ricerche dei suoi più recenti biografi, il mistero della sua identità non è stato davvero svelato. Quando nel 1886 pubblicò il primo libro, dichiarò di avere diciassette anni e di essere figlia di un conte veneziano. Ma ne aveva già trentuno, ed era stata, fino a poco tempo prima, Mary Mills, negletta figlia di una serva. Era cresciuta nella campagna del Surrey, senza fratelli né amici, con una madre anaffettiva: i suoi unici compagni furono i libri (Shakespeare e Keats, ma anche Radcliffe, Wallstonecraft, Beckford e Poe). Poi il padrone sposò in seconde nozze la serva e la legittimò. Ma non la presentò mai come sua figlia, e lei rifiutò sempre di considerarlo suo padre, se non adottivo. Mary Mills divenne Minnie Mackay. Charles Mackay, scozzese, era un giornalista e un paroliere (le canzoni tratte dalle sue poesie erano molto popolari). Anche il figlio Eric scribacchiava fiacchi versi. Insomma, l'adolescente figlia della serva entrò in una famiglia di borghesi divorati dal sogno della letteratura. Lei però - bionda e graziosa - inizialmente tentò di diventare una pianista. Si ribattezzò con un nome francese e un cognome italiano, gradevolmente esotico per gli inglesi. Ma presto abbandonò la musica per la narrativa. Della pianista conservò il nome. E qualcosa di più. A poco a poco Marie Corelli non fu soltanto uno pseudonimo suggestivo, che proteggeva la sua umiliante origine: divenne un personaggio (la donna anticonformista, zitella e libera), una maschera (la caricatura della scrittrice stravagante) e poi una persona - alla fine, la sua vera identità.
Il primo romanzo - L'idillio dei due mondi, storia esoterica di magia e conoscenza di sé - riscosse un successo talmente travolgente che sorprese il suo stesso editore George Bentley - e il famoso scrittore Hall Caine, che lo aveva letto per suo conto e rifiutato. Marie Corelli però aveva accumulato trent'anni di frustrazioni e disillusioni e il successo la rese combattiva, insolente, vanitosa. Nell'ambiente letterario si guadagnò aspri nemici. Joseph Conrad si macerava confrontando l'esiguità delle vendite dei suoi capolavori alle centinaia di migliaia di copie della Corelli, capace di spacciarne ventimila in due giorni. I critici la ignorarono o la stroncarono, bollandola come una modista, con la mentalità di una cameriera. Ma - forse proprio per questo - Marie Corelli entrò subito in sintonia con la massa invisibile dei lettori, che in un romanzo cercavano solo una risposta semplice e avvincente alle domande sul senso della vita. E Corelli, incapricciata di spiritualismo, filosofia, religione, scienza e occultismo, gliene dava. Per quarant'anni dominò le classifiche di vendita, cimentandosi nei generi più diversi. Scrisse una trilogia fantasy (dando un seguito alle avventure del mago caldeo Heliobas in The soul of Lilith e Ardath), ma anche una trilogia biblica in cui riscriveva la storia del cristianesimo (Barabba, I dolori di Satana, The Master Christian); scrisse storie di fantasmi, di mummie egizie, racconti di orrore e fantascienza che il cinema e il fumetto avrebbero saccheggiato. La leggevano tutti: cameriere, operaie, attrici, nobili, perfino la regina Vittoria. La leggevano gli inglesi, ma anche i danesi (C. T. Dreyer girò una rivoluzionaria versione del Satana) e gli italiani (fu presto tradotta da Treves). La leggevano i bambini poveri nei ghetti, ma anche gli scrittori più insospettabili, come James Joyce ed Henry Miller.
Vendetta! - il titolo originale è in italiano - fonde spudoratamente il teatro elisabettiano, il melodramma e il Conte di Montecristo. E' una storia di colera (purtroppo siamo a Napoli), lussuria, denaro e tradimento. Il conte Fabio Romani si risveglia sepolto vivo nella cripta di famiglia. Capelli bianchi e occhiali scuri sul viso, divenuto una sorta di demone senza cuore, tornerà per vendicarsi e non avrà pace finché non avrà ucciso coloro che gli hanno rubato la vita. Il personaggio del morto vivente è il leit-motiv della produzione della Corelli, che credeva nella reincarnazione e nella trasmigrazione delle anime. Lei, però, a un certo punto morì. Era una donna ricca, anche se avvelenata da quella che riteneva una persecuzione dettata dall'invidia contro il suo genio incompreso. Viveva in un'antica dimora Tudor, con la devota, rassicurante e materna compagna Bertha Vyver. Benché sua coetanea, la chiamava Mamacita; ne era chiamata Animaletto. La loro fu una quarantennale storia d'amore (non rovinata nemmeno da una tardiva passione non corrisposta, che rese Marie, a più di cinquant'anni, patetica persecutrice di un uomo sposato). L'infermiera che la accudiva, però, non doveva saperlo. Marie Corelli presentì la sua morte. Implorò l'infermiera di chiamarle l'amica. Era il 1924. I suoi romanzi erano passati di moda: l'infermiera non li leggeva e non credeva ai suoi poteri magici. E non sapeva quanto Mamacita fosse importante per lei. Marie Corelli morì sola. La falsa contessa veneziana possedeva una vera gondola. Bertha, sua erede universale, ne ricavò 37 ghinee.
Cancellata dalle storie della letteratura, Marie Corelli è stata riscoperta dai cultural studies, e ricollocata tra gli autori del gotico post-romantico, tra i popolari romanzieri tardo-vittoriani Haggard e Conan Doyle, tra gli inventori della fantascienza e del "sovrannaturale". Qualcuno oggi la paragona a J. K. Rowling e a Stephanie Meyer: cent'anni dopo gli effimeri trionfi di Marie Corelli, sono ancora le donne a intercettare i sogni segreti dei lettori e ad appagarli. Nessuno le considera vere scrittrici. Eppure." (da Melania Mazzucco, La vecchia signora dell'horror. La riscoperta di Marie Corelli, madre di tutte le Rowling, "La Repubblica", 25/03/'11)

La caduta nel tempo


"Quando viveva Cioran, non c'era portone che varcassi con più gioia di quello di rue de l'Odèon, dove egli abitava. Non c'era ascensore (venne aggiunto più tardi). Una scala quasi a chiocciola si avvoltolava intorno a sé stessa, e ci abbandonava davanti alla bassa porta di una di quelle chambres de bonne dove i signori dell'Ottocento rinchiudevano le loro domestiche. Al suono del campanello, Cioran veniva ad aprire: esile, sorridente, trasformato nel fedele servo di sé stesso, ci pregava di chinarci per non battere la testa contro la cornice della porta.
Eravamo entrati nel regno del piccolo, e si capiva che Cioran, per lunghi anni abitante di povere camere d'albergo, amava appassionatamente la sua casa, la sua conchiglia, il suo bozzolo, e a nessun costo l'avrebbe cambiata con un'altra. Tutto vi era incredibilmente minuscolo. Camera da letto lillipuziana, cucina invisibile, il pranzo posato su una tavola di vimini, fragili poltrone estive, il terrazzo con qualche vaso di rose che Simone curava e dove Cioran contemplava il suo infinito; e lo studio ricavato nel tetto. C'erano libri su una sedia e per terra. Ma dove erano tutte le altre decine di migliaia di libri, che quest'uomo coltissimo e insaziabile aveva letto durante la vita? Li aveva nascosti in cantina? Non credo: doveva averli mangiati, come il rotolo dolce e amaro che l'angelo offrì a Giovanni nell'Apocalisse.
Infine varcavamo l'ultima porticina, ed entravamo nel "salotto" - nessuno lo chiamava così - , dove Simone e Cioran ricevevano. Di quelle sere conservo un ricordo straziante, perché non potranno ripetersi mai più, perché non potranno ritornare più dalle tenebre dove stanno nascoste; e insieme lietissimo, perché in poche sere della mia vita sono stato così compiutamente felice. Ci sedevamo a tavola. Simone portava il pasticcio o il pesce o il gigot, che aveva cucinato con le sue mani. E parlavamo. Nulla era più bello che conversare tra amici, di tutto e di niente, idee, libri, persone, aneddoti, ricordi, fantasie, secondo un libero ordine suggerito dal capriccio o dal cuore. Ogni parola era compresa; e portava subito la risposta, brillante come la domanda. Tutti erano a loro agio: perché Cioran celava per qualche ora le ombre che portava con sé. Sorrideva: o rideva a bocca aperta, con le grandi risate dei malinconici, che mettono in ogni risata tutto il desiderio di felicità che intravedono per un istante, e che ritornerà così di rado. Non ostentava autorità né prestigio. Odiava il potere, la fama, e amava infinitamente la libertà. Era spiritoso, lucidissimo, demoniaco; e così affettuoso, tenero e dolce verso tutti noi, e con tutti gli altri esseri umani che questo misantropo amava attraverso di noi.
Mi scuso se ho scelto una strada così lunga per parlare di un libro stupendo, che Cioran ha scritto nel l964: La caduta nel tempo. Se avessi qualche vocazione pedagogica e dovessi indicare a un ragazzo dove imparare a pensare, gli direi: «Apri questo libro: ci sono tutti i grandi temi della vita, quelli di cui i filosofi non parlano più, e i pensieri che oggi, per destino o per caso, ci attraversano la mente. Qui potrai trovarli riflessi in uno specchio impareggiabile». Sebbene Cioran non ami sé stesso, questo libro é una specie di diario: ogni cosa vi è esperienza personale o, che è lo stesso, frutto della sua potentissima e rapidissima immaginazione; eppure non c'è traccia diretta del suo io, perché le esperienze vengono portate - e accettate o condannate - davanti all'osservatorio di una mente impersonale. Come in Pascal, la tensione é così intensa, che ciò che è psicologico viene bruciato, e trasformato in un lampo metafisico. Ho fatto il nome di Pascal; e Cioran è una specie di Pascal moderno. Come lui, ha conosciuto le tentazioni dello scetticismo: si è annullato in Dio, e poi, a differenza di Pascal, non ha potuto reggere quella profondissima quiete, quel dialogo con l'Uno; e ha abbandonato Dio, vivendo tra i dubbi e i rottami della sua intelligenza.
Non c'è scrittore moderno più denso di Cioran. Che mirabile concentrazione, che prosa drammaticamente prosciugata: cade ogni alone, ogni ombra, ogni eco, ogni indugio, ogni incertezza; assistiamo all'esplosione della verità, che di colpo splende e si incide nella carta. Non c'è mai un piano o un progetto. Cioran procede e torna indietro e balza di nuovo avanti, a lampi, scorci, baleni, andirivieni, grida. Sebbene abbia appreso il francese sui moralisti del Seicento e del Settecento, la sua prosa è quella di un tardo romantico: feroce, convulsa, apocalittica. Ora ha splendidi sarcasmi baudelairiani, ora trombe abbrunate, ora mortali disperazioni, ora disperazioni brillantissime e frivole, dove la forma dell'aforisma lo soggioga, ora ilarità romantiche, ora attimi di quiete buddista, ora aspirazioni a una leggerezza che gli sfugge. Sempre abbiamo l'impressione che egli non pensi, ma venga pensato: dal corpo, dai nervi, dalla forza stessa del pensiero. E per questo ci ferisce, e talora ci offende; e noi dobbiamo misurare il colpo e la portata di ogni ferita, riflettere su ogni parola, attraversando la quasi intollerabile densità della sua prosa.
La caduta nel tempo comincia, come dovrebbe iniziare ogni libro, con un commento alla seconda scena della Genesi: il Paradiso terrestre, il peccato. Come Kafka, anche Cioran sogna non l'albero della conoscenza (da cui sono derivati tutti i nostri mali), ma l'Albero della vita: «esso solo è degno di essere conquistato, esso solo merita lo sforzo dei nostri rimpianti». Fino all'ultimo dei suoi libri, Cioran non ha mai dimenticato la sua vena mistica: l'innocenza, l'universo prima della caduta, l'uno, l'eterno, la quiete, «vivere acquattato nel più profondo del silenzio primordiale, nella beatitudine inarticolata, nel dolce stupore in cui giaceva la creazione prima del frastuono del Verbo». Rifiuta l'io, la natura umana, la conoscenza.
Ma come è lontano da Kafka! Negli aforismi di Zurau, Kafka ci ricorda che il Giardino esiste ed è fatto per noi: che l'Indistruttibile in noi non é stato distrutto; e che, ancora oggi, viviamo nel Paradiso mentre soggiorniamo nel tempo, sebbene pochi o nessuno se ne rendano conto. Unico nei tempi moderni, Kafka vive sotto le foglie e il profumo dell'Albero della vita. L'atteggiamento di Cioran è molto diverso. Egli pensa che Dio abbia commesso la più grave delle colpe. Invece di restare solo nel suo silenzio, avvolto da una luce pura, Egli ha creato; e da lì deriva tutta la nostra attività, il nostro amore della dismisura e dei gesti. E l'uomo del Paradiso, anche prima del peccato, portava in cuore il proprio veleno: era sbagliato fin dalla nascita; non era che inquietudine, malessere, desiderio di tentazione, desiderio di morte, incapacità di essere felice, ansia, terrore. Non poteva che ribellarsi: cercare di essere individuo, «frattura e incrinatura dell'Essere». E quanto alla quiete, nella quale Kafka visse profondamente per qualche tempo, non è fatta per Cioran. Per un istante sogna «una vita rallentata, fatta di impressioni così impercettibili che sembrano inesistenti»; e poi, subito, ricade nell'inquietudine, nella convulsione, nella sofferenza. Così Cioran condivide con Dio e l'uomo una doppia caduta. Immagina di essere stato un dio, caduto molto più terribilmente degli dèi e dei dèmoni: non potrà mai dimenticarlo; e riscopre ogni momento l'orrore della caduta. Ma anche se non fosse un dio, chi è più simile di lui all'uomo cacciato dal Paradiso? Lo accusa di essere dominato dalla febbre, e nessuno più di lui conosce la febbre. Assale il Cristianesimo, ma è torturato dalla ferita cristiana. Vuole soffrire: chiede alla ragione gli strumenti dell'autotortura, le domanda argomenti contro sé stesso; e vede nella sofferenza l'unico fondamento della sua vita.
«Finché si sta bene, non si esiste. Più esattamente, non si sa di esistere». Malgrado i suoi sogni persistenti intorno all'Origine, egli è diviso, scisso, lontano dalla natura, come l'uomo moderno; e tutte le accuse che gli rivolge potrebbe rivolgerle a sé stesso. La sua visione dell'uomo è disperatamente romantica: «un disadattato esausto e infaticabile, senza radici, conquistatore proprio perché sradicato: un nomade insieme folgorato e indomito, che anela a rimediare alla propria deficienza e, di fronte al fallimento, violenta ogni cosa intorno sé; un devastatore che accumula misfatti».
Il dio e l'uomo caduto hanno due possibilità di espressione: quella di negare e quella di dubitare di tutto, specialmente della negazione. In Cioran vi è l'eredità lontana di una missione diabolica: come Mefistofele, egli è lo spirito che nega, che distrugge e si autodistrugge: lo fa con angoscia e felicità; e nei suoi insulti contro l'uomo si raccoglie una rabbia terrificante. Ma la sua vera atmosfera è il dubbio, al quale dedica un saggio meraviglioso. Non importa che egli lo detesti e lo screditi: che egli ne dipinga l'aridità, la sterilità, l'inutilità filosofica, l'atmosfera di carcere. In realtà, egli vive e si nutre di dubbio; e questa condizione desolata, alla quale dà un impulso drammatico che lo scettico tradizionale ignora, gli conferisce una specie di gioia vitale. Attraverso il dubbio, egli vuole giungere altrove. Dubita, dubita, dubita di sé, dubita dei propri dubbi, recide l'ultimo legame che lo teneva attaccato a sé stesso; e a questo punto tutto svanisce e si volatilizza e si spalanca l'immenso Vuoto, che le origini gli avevano nascosto. Si chiede. «Che cosa faceva Dio quando non faceva nulla? In che modo riempiva, prima della creazione, i suoi terribili ozi?». E' l'immagine più profonda e grandiosa che Cioran abbia mai dato di sé stesso.
La caduta nel tempo non ha una conclusione: perché il pensiero di Cioran non conclude mai, procede per contrasti polari, afferma ciò che aveva negato, capovolge ciò che sembrava pacifico, vede contemporaneamente i mille aspetti di un pensiero o di una condizione. Eppure c'è, in lui, intermittente ma indimenticabile, una nostalgia dell'Apocalisse, che assume due forme. La prima è mite: il sogno della fine della storia, quando forse si aprirà per l'uomo un'era senza desideri, liberata dal peso dell'antica maledizione, in cui «sarà dato ritrovare quell'impronta divina che portavamo prima della rottura con il resto della creazione». La seconda é terribile. Ora Cioran, che ha sempre conosciuto l'angoscia di vivere nel tempo, soffre una sventura che gli sembra più atroce: quella di venire rifiutato dal tempo. Non c'è più presente. Non c'è più istante o movimento. E gli sembra di cadere dal tempo, come si piomba in un carcere senza fondo; e laggiù incontra una specie di sottoeternità, una contraffazione della vera immortalità: inerzia, stagnazione, noia, irrealtà, inferno. Tremenda condanna. Ciò che avrebbe potuto essere beatitudine è soltanto orrore." (da Pietro Citati, Emile Cioran, "La Repubblica", 24/03/'11)

giovedì 24 marzo 2011

Ne uccide più la penna


"Ne uccide più la penna (Rizzoli), un’indagine di Mario Baudino nel mondo segreto dei detective bibliofili, personaggi assai riservati che si nascondono nelle pagine della letteratura gialla: aristocratici inglesi come l’impareggiabile Lord Peter Wimsey, primo della serie, inventato da Dorothy L. Sayers, o lettori compulsivi e bulimici come Nero Wolfe, poliziotti, dandy e persino ladri. Accanto a loro, spesso, un gatto. E su tutti l’ombra di un oggetto mitico che dalle Mille e una notte a Umberto Eco affascina gli scrittori bibliofili: il libro che uccide.

Philip Marlowe, nel Grande sonno, comincia la sua avventura entrando in una libreria antiquaria, e con una semplice domanda riesce a farsi un’idea abbastanza precisa del fatto che il luogo è assai sospetto. Chiede a quella che pare una graziosa commessa, ma che potrebbe anche non esserlo, un’edizione inesistente. La risposta imbarazzata («Non ce l’abbiamo») gli permette di capire che la ragazza non sa nulla di libri. Qualche lettore di Chandler si sarà chiesto quanto ne sappia a sua volta il grandioso personaggio, e forse ha concluso che non è molto esperto neanche lui. Prima di entrare in libreria, infatti, è stato in una biblioteca pubblica a consultare qualche bibliografia: la conclusione più ovvia è dunque che si trattava di un trucco da bravo investigatore, che sa improvvisare in base alle necessità, e che il passaggio non è essenziale. Da una breve indagine tra i lettori che hanno letto e apprezzato quel gran libro, le risposte confermano: quasi nessuno ricordava l’episodio, salvo un noto antiquario.
Se Marlowe sia o no un investigatore bibliofilo forse non è un problema così importante. Anzi, non lo è di sicuro. Sappiamo con certezza che è uno scacchista piuttosto abile, che è un buon lettore e che ogni tanto si diverte a prendere in giro le clienti che lo ritengono, in quanto investigatore privato, un tipo magari intelligente ma certissimamente ignorante. [...]
Non so se Marlowe sia bibliofilo, e che tipo di bibliofilo, anche se per consultare una bibliografia ci vuole qualche conoscenza specifica, e quanto meno occorre sapere che le bibliografie esistono. In ogni caso, se lo è, non rappresenta una rara eccezione, non è solo: intorno a lui, prima e dopo di lui, c’è una serie non irrilevante di eroi dei libri, detective molto particolari, gente che in certo qual modo risolve i misteri del mondo partendo da una biblioteca, reale o immaginaria. Sono tipi solitari, non fanno comunella; si somigliano molto, ma gli autori in genere negano con decisione di averli tratti da altri romanzi, d’aver fatto un pezzo di strada con loro trovandoli altrove e consegnandoli a qualcun altro, alla fine. Sono molti, ma al fondo sono uno: un personaggio che muta nel tempo pur rimanendo fedele a se stesso, il che significa fedele al suo amore quasi maniacale per i libri.
Nella lunga storia del giallo, che è ovviamente il suo terreno di caccia preferito (ma, come vedremo, non l’unico), esordisce nelle vesti di un nobile e ricco collezionista di cose belle un gentiluomo britannico decisamente snob con la passione per le indagini, e via via diventa un elegante borghese americano che comincia a badare al sodo, si incarna in detective privati decisamente in bolletta ma animati da nobilissimi ideali, si fa libraio antiquario, dei nostri tempi o magari dell’Ottocento, commissario di pubblica sicurezza bibliofilo per amore e infine anche ladro, bibliofilo e antiquario per copertura, anche se innamoratissimo di questo secondo lavoro. All’occorrenza si atteggia a duro, con esiti a volte esilaranti. I tempi si evolvono, e il personaggio si adegua. Ha un certo talento per i travestimenti: per esempio, nel Nome della rosa lo troviamo nei panni di un dotto francescano, inquisitore riluttante, che si mette in avventura e diventa detective, in fondo, solo per il grande amore verso i libri e per il desiderio di poter visitare la biblioteca-labirinto dell’abbazia in cui arriva a sbrigare affari di una certa rilevanza politica.
Nel Trecento la distinzione fra bibliomane e amante dei libri è forzosamente vaga, ma Guglielmo da Baskerville fa certamente parte della schiera: sembra averli letti tutti, e inoltre sa riconoscerli a colpo d’occhio, a naso, a citazione; risolve il mistero non solo grazie alla sua vasta cultura, ma scoprendo infine un libro che uccide, e cioè il santo graal di tutti gli scrittori bibliofili dotati di una vena un po’ noir, il tesoro nascosto e maledetto che irradia il suo inquietante mistero dalle Mille e una notte ai nostri giorni.
Forse il detective bibliofilo è l’unico che sta al di sopra (o al di sotto, fate voi) dei romanzi gialli in cui si trova ad agire; forse è una provocazione, una beffa, l’autore che, guidato da una propria passione, si fa prendere la mano, o semplicemente la prova che le cose, a questo mondo, non sono mai quelle che sembrano, e anche i romanzi osservano compunti la regola. È l’espressione di un paradosso, visto che nella realtà succede di rado. A me non è mai accaduto di incontrarne uno, anche se ciò non significa che non esista. Ci saranno sicuramente commissari o magistrati che amano collezionare libri: ma la loro passione, a quanto risulta dalle cronache, non sembra essersi incrociata, in nessun caso noto, con la loro attività.
Nella letteratura, invece, il legame è inestricabile. Da un lato, come è evidente, il detective bibliofilo incarna la convinzione in base alla quale se uno sa decrittare i libri è in grado di risolvere qualunque imbroglio, cioè decrittare il mondo; dall’altro è anche vero che pedinamenti, cacce notturne e diurne, vite spericolate, agguati e sparatorie suggeriscono un ambito fortemente estraneo e anzi del tutto opposto alla quiete silenziosa di una libreria o di una biblioteca. Ma il diavolo dell’avventura si annida tra le copertine: e il detective bibliofilo, nella sua eccezionalità, è forse il personaggio letterario che meglio incarna il mistero e la sacralità di cui ogni libro è intriso.
Forse per questo è vissuto in clandestinità. Come un cacciatore di fantasmi, o di vampiri, ha coltivato con grande riservatezza la sua bizzarra ossessione di incontrare finalmente un avversario degno di lui, di cui sospetta ed evoca periodicamente l’esistenza. Per fare ciò, ha dovuto nascondersi. Ha cercato di non farsi notare, ha cancellato di volta in volta le tracce persino dopo qualche trionfo nelle classifiche dei best seller, sempre aspettando l’incontro, il combattimento finale con la sua preda inquietante. È astuto: lungo un secolo e più di storie gialle ha saputo vivere nell’ombra, e lì preparare le sue trappole. Questa volta, forse, abbiamo capito che cosa cerca davvero. Come si dice nei polizieschi, lo abbiamo incastrato." (da Mario Baudino, Quando il libro uccide,
Marlowe indaga
, "La Stampa", 23/03/'11)

La storia di Elsa


"Elsa Morante, la maggiore scrittrice del nostro Novecento, viveva nell'incanto della realtà che portava in sé, e dava una luce di magia alla sua scrittura. Creava nei personaggi la ricchezza di una profonda, dolcissima comprensione femminile. Lei, lontana da ogni maternità, creò Useppe nella Storia, forse perché la mancanza di ciò che non si è avuto fa comprendere il vero di quanto l'esperienza non ci ha dato nell'incontro con la realtà. Ricordo l'amore, quasi di rabbia, di mia madre per me; non riusciva a perdersi nella meraviglia dell'immaginario perché c'ero io, l'oggetto, ed ero ancora io a non lasciarle libera la visione del sogno. Elsa, con Useppe, come in una sorta di visione materna giunse alla conoscenza di quella dolce e tenera carnalità infantile che trascende i limiti dell'esperienza diretta del vivo. Certo fu povero il matrimonio della giovane Morante con Moravia, sempre attento, con la sua mente fredda e senza trascendenze, nel guardare le cose della vita. Elsa, come Alberto, possedeva un'intelligenza con sale ebraico, ma incarnata in una donna del nostro Sud, dove i sogni portano con sé le cose. La sua presenza fisica sembrava non volersi definire nel ricordo di un corpo morbido, infantile. In uno dei nostri primi incontri a Roma, a un tavolino di piazza del Popolo, comparve con lei in attesa, timida, piccola e magra, una donnina che Elsa mi presentò con una brevissima frase affettuosa: «È una lesbica». Più volte mi chiesi cosa vedesse nell' omosessualità, o se la sentisse con tenerezza materna. Aveva la sapienza dei «semplici» che vivono nella loro verità lontana, in quella dimensione dove anche il suicidio entra nella favola del corpo che si libera da se stesso. Lo aveva tentato, ma riuscirono a destarla quando già si credeva tra le ombre. Era il tempo felice dei barbiturici. «Sei il solo che è venuto», mi salutò non appena il suo occhio incerto mi riconobbe in fondo alla stanza della piccola clinica romana. Era la sua voce di protesta che ben conoscevo, asprigna, un po' gracidante: «Non viene mai nessuno». Era il lamento per il silenzio delle amicizie di un carattere solitario. Era arrabbiata e rattristata perché Moravia aveva venduto - disse - «la mia macchina». Non potevo nemmeno immaginare che Elsa guidasse. Due grandi sacche di orina giallo rossicce pendevano ai due lati del letto, per l'ultimo viaggio. Le sue parole si fecero rade, lo sguardo si allontanava da me e la vedevo sorridere di un sorriso gentile, quasi scherzoso. Non mi fu immediato capire a chi si volgesse. Non l'avevo quasi notata all'arrivo, piccola, attaccata alla spalliera al fondo del letto. Era quell'antica donnetta di casa che aveva tratto Elsa dal sonno quando, già tra le ombre, vedeva la quiete della morte. Uno scherzo, un sortilegio. Così, in silenzio, comunicavano tra loro. Io ero in visita e presto le lasciai sole. Tornai il giorno dopo, la trovai sulla sedia a rotelle. Scese con me nel piccolo giardino della clinica a prendere fiato, a fissare il sole giallo dell'autunno come ultima stagione di vita. Per i funerali, alla chiesa di piazza del Popolo, c'erano meno di venti persone. Ultimo, sbarcò da un' automobile Moravia, elegante, accompagnato dalla nuova giovanissima Carmen Llera. Un tic nervoso gli scuoteva le spalle in controcampo con la sua zoppia." (da Livio Garzanti, La storia di Elsa, "Corriere della Sera", 20/03/'11)

mercoledì 23 marzo 2011

Hillman, American Psyche


"James Hillman, psicologo, studioso, critico culturale e autore di oltre venti libri, tra cui Il codice dell'anima, è uno dei più brillanti pensatori del nostro tempo sulla psiche umana e la psiche collettiva. Sta per compiere ottantacinque anni ed è in convalescenza dopo due anni di malattia. «È una nuova vita», mi dice. «Tanta riflessione al posto dell'ambizione».
La psiche americana ha sempre nutrito le riflessioni di Hillman; quella che segue è una versione ridotta di una conversazione sulla sua interpretazione psicologica dell'attuale Zeitgeist. La strage di Tucson (l'8 gennaio 2011 un ragazzo aprì il fuoco durante un incontro tra gli elettori e la deputata democratica Gabrielle Giffords: sei i morti, tra cui una bambina, la Giffords colpita alla testa, ndr) ha scatenato un dibattito sulla polarizzazione in corso tra destra e sinistra.
Che cosa ne pensa da un punto di vista psicologico? «Dobbiamo capire che la nostra mente è il nostro nemico. L'attuale dibattito è diventato molto ideologico e vi sono alcune idee fisse che dominano la discussione. Questo è il risultato del pensare per opposti; risale ad Aristotele, e ha a che fare con una logica del tipo o/o: se una cosa è così, non può essere nell'altro modo. Ma in realtà il mondo non è così. Per esempio, la maggior parte della gente crede che l'opposto del bianco sia il nero, ma ci sono sfumature di nero (dal colore dei mirtilli, a quello del carbone, o a quello dei merli) che non hanno niente a che fare con il bianco. Il problema è imparare a valutare ogni questione nel merito, senza dover ricorrere al punto di vista dell' opposto. In terapia, quando sogni tua madre, ad esempio, non devi necessariamente parlare di tuo padre in quanto presunto opposto».
A proposito di gestire punti di vista politici polarizzati, che cosa pensa di Obama? Molti a sinistra lo vedono debole quando si mostra conciliante con la destra repubblicana. «Il temperamento di Obama è una grandissima virtù. Finalmente abbiamo una persona capace di un atteggiamento ponderato, che cerca di ragionare sulle cose, che sopporta la pressione e può perfino ammettere di aver fatto uno sbaglio. Il suo discorso alla cerimonia in memoria delle vittime della strage di Tucson è stato un capolavoro. È andato dritto nel mezzo di tutti quei conflitti e ha detto delle cose che avevano un contenuto reale, non sentimentale. Non ha usato un linguaggio rigidamente ideologico o altamente intellettuale. Facendo riferimento alla bambina uccisa (Christina Taylor, ndr), nell'incoraggiarci a vivere all'altezza di ciò che lei si aspettava dalla nostra democrazia, è riuscito a rivitalizzare il sogno americano e l'impegno nella vita politica attraverso il sogno di quella bambina di diventare una persona politicamente impegnata. E, personalmente, penso che l' accordo che Obama ha fatto con i repubblicani sulla legge finanziaria sia stato intelligente».
Molti, a sinistra, hanno biasimato Obama per aver ceduto proprio su questo. Si tratta di un esempio di rigidità ideologica? «Sì, è una fissazione ideologica per la sinistra: non dobbiamo lasciare che i ricchi diventino più ricchi. Sono pienamente dalla parte della sinistra ideologica, ma su questo tema penso che la sinistra sbagli. Lasciamo che i ricchi si prendano i loro milioni ... tanto lo faranno comunque! La situazione rimarrà così finché i ricchi non cominceranno a convertirsi da soli, come Warren Buffet e Bill Gates, che ora stanno cercando di cambiare la mentalità dei capitalisti. E sei ricchi hanno più soldi per via dell'accordo sulle tasse, facciamo appello alla loro capacità di cittadinanza e speriamo che trovino il modo di aiutare il Paese, le cui condizioni riguardano anche loro. Ci sono molte cose che non sappiamo su quello che avviene nella psiche dei super ricchi».
Vuol dire che i ricchi stessi potrebbero celare delle nuove prospettive sulla loro ricchezza? «Esatto. Non riesco a immaginare che i ricchi o i conservatori siano completamente estranei ai cambiamenti che avvengono nella psiche collettiva. Ma la sinistra ideologica ci inchioda a una visione fissa dell'"altro" e questo li costringe a dover essere peggio di quello che potrebbero essere».
Intende dire che l'immagine fissa che i liberali hanno della destra potrebbe in realtà contribuire a creare "il nemico"? Ma la destra non è colpevole quanto la sinistra? «Non dico che non ci siano degli attivisti fanatici nella destra. Ma io sono di sinistra e per questo cerco di portare più psicologia nella mia parte. Dico che la sinistra ideologica rischia nel mantenere un'immagine stereotipata del nemico. Nel fissare l' avversario, lo rinchiude in una scatola e non gli lascia la possibilità di una trasformazione come quella esemplificata da John Dean, l' avvocato di Nixon, che poi testimoniò contro di lui durante le udienze del Watergate. Ma se un partito politico è visto solo in questo modo o in quell' altro, impediamo tutto ciò che potrebbe avvenire nella sua psiche, e non offriamo nessun contributo a questo processo. Ad esempio, se io sono sposato e vedo mia moglie solo in quanto cattiva e irascibile, e la vedo sempre in questo modo, si fisserà in quella definizione del suo personaggio e basta».
Quale altro effetto può avere sulla nostra cultura il pensare per opposti? «Porta all'estremo moralismo della nostra società, che dichiara che una parte è buona e l' altra è cattiva e così l'"altro" diventa il male. Tutto questo conduce alla conquista, alla guerra, alla vittoria, a queste idee occidentali distruttive».
In effetti, uno degli argomenti su cui si discute ancora oggi dopo la strage di Tucson è se il violento clima di retorica politica non abbia contribuito a provocare quello che è successo. «Su questo, vedo le cose in una prospettiva leggermente diversa. Penso che il sistema educativo americano, nel quale non c'è spazio per chi è strano o diverso, abbia reso quel ragazzo (Jared Loughner, 22 anni, arrestato dopo la strage, ndr) un asociale. Quando Loughner ha cominciato a diventare uno schizoide in classe, è stato buttato fuori; si è perso nella massa degli abitanti di Tucson, non ha più avuto un appiglio».
Dunque lei attribuisce questa tragedia al nostro sistema educativo? «Abbiamo bisogno di un sistema educativo capace di accogliere menti di ogni genere, e in cui uno studente non sia costretto ad adattarsi a un certo modello culturale. Il nostro sistema educativo si è talmente ristretto a una certa formula che se attraversi un momento di difficoltà vieni espulso, spesso all'età della schizofrenia, trai 19 e i 23 anni, e questo è un pericolo. Oltre a questo problema, c'è poi la disponibilità di armi e la pressione di una società che non sopporta il diverso».
Perché non si arrivasse a questa strage, che cosa si sarebbe dovuto fare? «Loughner non avrebbe dovuto essere cacciato di scuola; il suo insegnante avrebbe dovuto passare più tempo con lui cercando di aiutarlo. Ci vorrebbe anche un tipo di aiuto da non confondere con l'"aiuto psicologico" e che non ti etichetti come un malato. Il problema del sistema educativo è che è privo di amore».
Lei parla di restituire l'umanità a una persona, di non spersonalizzarla, perché questo ne accrescerebbe la marginalizzazione. «Esatto. Ma invece di parlare di questo, si esamina il modo in cui si sono svolti i fatti e si discute di ridurre i caricatori da trentuno a dieci pallottole. Il ragazzo resta fuori da questa discussione».
Siamo un grande Paese che mette tanta enfasi sull'individuo e poi abbandoniamo l' individuo? «Assolutamente. La persona diventa strana, isolata, tagliata fuori da tutto».
Lei ha detto che c'è, nell' America di oggi, un certo «aspetto tragico». Può spiegarci meglio? «Tutto ciò di cui ognuno di noi ha paura è già successo: la fragilità del capitalismo, che non vogliamo ammettere, la perdita della vocazione imperiale degli Stati Uniti; e l'eccezionalismo americano. In realtà l' eccezionalismo americano è che siamo eccezionalmente arretrati in almeno quindici campi diversi, dall'istruzione alle infrastrutture. Ma siamo in una fase di rifiuto: vogliamo restaurare le cose come erano una volta, rimettere il Paese dov'era un tempo».
Molti non vogliono mettere in discussione l'eccezionalismo americano perché se l' America non è eccezionale, che cos'è, e che cosa sono io? «La gente ha una capacità di illudersi enorme. Quando si vive di illusionio delusioni, ristabilire queste illusionio delusioni richiede un grande sforzo per evitare di analizzarle. Ma c'è un'antica idea al lavoro dietro alla nostra condizione attuale: quella di enantiodromia, il concetto greco secondo il quale le cose diventano il loro opposto. Si dice, per esempio, che stiamo vivendo un cambiamento epocale. E in questo cambio d'epoca, le vecchie cose che sembravano delle virtù diventano improvvisamente dei vizi. Nei duemila anni che ci precedono c'è stata la grande espansione dell' Occidente e l'epoca delle grandi religioni monoteistiche, l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam. Eppure queste tre profezie salvifiche, con le loro immense conseguenze estetiche e il loro enorme effetto di civilizzazione, si sono trasformate in mostri richiudendosi in se stesse, nella loro aderenza ai principi morali e all'ortodossia. Non hanno discernimento; tutte e tre pretendono di essere "la religione"».
Quale potrebbe essere un altro esempio di qualcosa che diventa il suo opposto? «Ricorderei le grandi fedi nel secolarismo e nell'umanesimo nate nel XVII secolo o anche prima. Come vediamo oggi negli scritti di Christopher Hitchens e di Richard Dawkins, la "quarta religione" sta scacciando la religione. Questo ci lascia una sorta di arido scientismo o quello che le persone religiose descrivono come un umanesimo privo di Dio. Sono queste le grandi correnti che ci sono oggi. La gente vuole ancora andare oltre, ma le cose non si sono ancora pienamente disintegrate». Lei dice che questi potenti miti che hanno definito l'America hanno raggiunto il loro apice e ora sono in declino, ma non completamente. «Prenda per esempio il mito economico, il più grande mito che viviamo in questo Paese. Ora, tutti gli economisti dichiarano che il problema del mondo oggi è il crollo della domanda, e che dobbiamo stimolare la domanda, o tramite il governo o tramite i prestiti bancari. Ma se si dovesse guardare il problema della caduta della domanda da un punto di vista ecologico, che cosa c' è di meglio? Non dimostra tutto questo una straordinaria frattura tra il pensiero economico che domina il nostro mondo capitalista, compresa la Cina, e il punto di vista della Terra? Ma il modo di pensare ecologista crea un enorme problema di panico per le economie capitaliste».
Perché queste società sentono che sta morendo un vecchio modo di vivere? «Esatto. Ci sono oggi moltissime persone intelligenti che stanno lavorando su come vivere in una società economica a crescita zero. E Obama è stato fondamentale nel cercare di portare un nuovo pensiero strutturalea queste domande. Ma finché governeranno gli economisti e i banchieri, il vecchio stile morirà molto lentamente».
La morte del vecchio implica sempre, però, che sia in arrivo qualcosa di nuovo. (con tono esasperato) «Questa ricerca del nuovo è un vizio americano! Vogliamo sempre vedere che cosa viene dopo, siamo dipendenti dal futuro! Il futurismo è un altro mito americano: che si tratti di Kennedy, di Johnson, di Reagan o di Obama, tuttii presidenti americani si insediano con un nuovo programma e con la convinzione che il Paese sarà meglio che mai. Ma io credo che bisogna affrettare il processo di decadenza. La visione classica è sempre quella di guardare indietro, di tenere sotto controllo e di aiutare il morente».
Mentre la ascolto, penso a quanto la mia famiglia ed io abbiamo aiutato mio padre a morire, è stata un'esperienza molto profonda. Mi chiedo che cosa possa significare un'esperienza simile in senso culturale. «Bisognerebbe pensare a ciò che deve morire di questa cultura; a quali componenti devono svanire, come la supremazia bianca, la supremazia dei maschi e l'idea che noi siamo "i buoni". L'America ha una certa arroganza rispetto alla propria virtù. Un'altra cosa potrebbe essere la nostra comprensione "non analizzata" della parola libertà. Probabilmente una delle cose impressionanti, nella morte di suo padre, era il suo bisogno di aiuto, il suo dipendere da case di cura, infermieri, stampelle ... eppure, da questa mancanza di libertà è nato un altro tipo di libertà».
Mio padre era testardamente americano in questo senso. Non voleva nemmeno andare in un ospedale perché poi non sarebbe più stato "libero" di fumare o di bere. «Non abbiamo riflettuto abbastanza sull' idea di libertà. Bisogna trasformarla in una libertà interiore dalla "domanda" stessa: è quel tipo di libertà che si ottiene quando sei libero dall' ossessione di avere, di possedere e di essere qualcuno. Per esempio, pensi al tipo di libertà che Nelson Mandela deve aver sperimentato quando fu messo in prigione. Perse completamente la sua libertà nel mondo esterno, ma trovò la libertà in se stesso. Questo è un esempio che amplia l' idea limitata che oggi abbiamo della libertà: che posso fare quello che mi pare in casa mia; che qui decido io e non voglio nessuna interferenza da parte del governo; che non voglio che nessuno mi venga a dire cosa posso o non posso fare; che ci sono troppi regolamenti, e via dicendo. Questa è la libertà di un adolescente. Un altro aspetto strano di questo cambiamento epocale è la paura della gente di ammalarsi di cancro; è un fatto assolutamente endemico che attraversa tutta la popolazione. La legge sull' assistenza sanitaria ha acuito questo problema: la gente ha cominciato a chiedersi che cosa gli succederebbe se gli venisse un tumore». Dunque, le persone sentono questo cambiamento, percepiscono che le cose non saranno più le stesse, e questa paura peggiora l' intero processo? «Decisamente. Questo lo vediamo riflesso nella paura che si ha degli immigratie della violazione dei nostri confini; abbiamo paura che si esauriscano tutte le cose da cui dipendiamo; di perdere il potere e le nostre basi militari in tutto il mondo; della caduta di livello del nostro sistema educativo e che l' America non sia più la migliore e la più forte. Ma il problema è che... è già collassata, è tutto finito. Ed è questo che è interessante! Perché una volta capito che cosa sta accadendo veramente, possiamo vedere cosa altro potrà emergere quando le strutture logore finalmente crolleranno. Stanno avvenendo tante cose sotto queste vecchie forme. Non sappiamo ancora che cosa sia esattamente; è tutto molto disorganizzato, non coalizzato, cose diverse, disperse. Ma è molto importante che la gente prenda parte ad alcuni di questi progetti emergenti». Per molti, però, l' atmosfera psichica è carica di incertezza. Come vivere in questo passaggio tra un' era e l' altra? «È importante evitare di pretendere che ciò che verrà sia conforme ai modelli del passato, vale a dire unito, organizzato ed esauriente. Ciò che comincia a emergere è molto diverso da ciò che c' era prima: non possiamo eliminare completamente cose come la gerarchia, ma ciò che sta sorgendo potrebbe non avere un sopra e un sotto, e nemmeno un nome. Quando è nato, il movimento femminista rifiutò di avere una leader; semplicemente donne diverse si alzavano e parlavano. Le prime femministe furono molto attente a non mettere ciò che stava sorgendo spontaneamente nella vecchia bottiglia. Penso quindi che sia una questione di lasciar scorrere le cose, di aver fiducia che il cosmo emergente uscirà per conto suo e che si darà una forma mentre sorge. Questo significa vivere in uno spazio aperto, questa è la libertà». " (da Pythia Peay, Hillman, American Psyche, "La Repubblica", 13703/'11; trad. di Luis E. Moriones)

America and the Shift in Ages: an Interview with Jungian james Hillman

martedì 22 marzo 2011

Disumane lettere


"Nel suo nuovo libro Disumane lettere, Carla Benedetti, critica letteraria e saggista, fa sua una domanda di Richard Powers: può la razza umana avere un lieto fine? E cioè, in un'epoca apocalittica come la nostra in cui la fine, per la prima volta, si delinea concreta all'orizzonte, possiamo agire - anche letterariamente - affinché la realtà cambi? Questa domanda ne porta con sé un'altra: che connessione c'è, oggi, tra due concetti sinora così distinti come razza umana (dunque storia oggettiva, scienza quasi) e lieto fine (dunque fiction, finzione, struttura narrativa)? Argomento attuale come non mai, la differenza tra reale, realismo, fiction, narrazione, modelli narrativi non è il centro solo dell'ultima fatica di Carla Benedetti, ma anche di tanti articoli, libri, trasmissioni radio e tv dell'ultimo periodo. Rispetto agli altri però, Disumane lettere (Laterza) - che indaga le humanities oggi - compie uno scarto. È vero, si chiede, che la letteratura è sul viale del tramonto, appannaggio di una ristretta cerchia intellettuale rinchiusa in una torre di lamiera? Che dei libri non c'è più bisogno? Che la letteratura è ormai schiacciata in un realismo fittizio figlio della fiction? Se in Italia l'inizio della fame di reality - cioè di mescolanza tra realtà dei fatti e modelli narrativi - sta nella tragedia di Vermicino e passa per Cogne, il tele-racconto dell'omicidio Scazzi rivela la dittatura della fiction sulla realtà. Una realtà senza fatti, mai nuda, sempre più spinta a forza nelle caselle della narrazione fittizia (trama, colpi di scena, fruizione a puntate). Cambia il modo di fare cronaca, rendere pubblico il fatto. Per Benedetti questo è il risultato del sorpasso della fiction sulla realtà, mentre per il filosofo Maurizio Ferraris - che ne ha parlato in un articolo su queste pagine - la nuova tendenza ha un nome: si chiama realitysmo ed è la sostituzione della realtà con la finzione. Ma i canoni della fiction, oggi, contagiano anche la letteratura. Di più. Il mercato mondiale della narrazione televisiva - scrive Benedetti - , con le sue strutture lineari e confortanti spacciate per calco del reale, ha fagocitato come per opera di una selezione naturale i modelli narrativi altri: la fiction applicata alla letteratura sembra l' unico modo per raggiungere il pubblico/i lettori. Ma non è solo questo: la letteratura ha smesso di credere nella propria potenza sovversiva e, incapace di riconoscersi un ruolo, si è soffocata in un onnipresente realismo spicciolo, indiscreto e accattivante, che astrae e semplifica il reale. Il realismo letterario odierno, cioè, non è verista né neorealista, ma consolatorio: inventa un mondo manicheo in cui tutto è riconoscibile. Surrogato della realtà, si impone di rendere il vero più elementare, pacificato. La letteratura rinuncia all'invenzione. Il primo effetto di tutto ciò è che il racconto del reale smette di esistere, o meglio è manipolato e tramutato immediatamente in favola patetica, farsa, thriller. Paradossalmente la denuncia sembra essere compito esclusivo di noire fantascienza, come la gabbia dei generi preservasse il lettore dalla paura del caos vitale e dall' impegno. Ma se cronaca e vita sono diventate «narrazioni», alla letteratura cosa resta? Qual è la funzione dello scrittore, deputato da sempre a raccontare? Che differenza c'è tra uno scrittore, un cronista e un presentatore? Per Benedetti esiste già una letteratura - ancora - viva in grado di raccontare il reale con mezzi non realisti. La cognizione del dolore (Garzanti) di Gadda, per esempio, in cui il reale è oltre, non fatto tangibile e passivo ma gomitolo irredimibile di materia e im-materia. O, pensando a oggi, Gomorra. La risposta sta dunque nel sottrarsi, da parte della letteratura, dalla funzione ancillare che le è stata (o che si è) conferita. Al contrario di quanto si dice, le lettere sono potenti e necessarie oggi più che mai, ancora in grado di ribaltare, agire sul reale; di restituire la complessità del «vero» sottraendosi al gioco del realismo a tutti i costi. La funzione nuova dello scrittore sta in una letteratura un poco dis-umana, cioè meno circoscritta al fatto umano materiale, libera di riprodurre la realtà in tutta la sua misteriosità, irrazionalità, irriducibilità. Una letteratura audacee "scorretta": la tolleranza, scrive Benedetti, è un valore irrinunciabile, ma perché dovrebbe avere come prezzo l'abdicazione dalla verità, dalla radicalità? Nichilismo, catastrofismo, politically correct, voyeurismo, paura della responsabilità in tutte le sue forme, mania del gossip, trasformazione del rispetto in timore di prendere posizione, percezione del mondo come sommatoria di soap: questi, io credo, sono i veri nuovi mostri. La dittatura della fiction non è che un effetto collaterale. E non definitivo, se esistono ancora libri capaci di irrompere dai generi e dalla frenesia da realitysmo, e di farsi specchio della realtà insubordinato. Fuori dal format. La disumanizzazione di cui parla Benedetti non è, dunque, rinuncia all'umanità, ma attestazione di potenza: disumanizzandosi (rifiutando un semplicistico antropocentrismo) le lettere inventano un nuovo realismo più-che-reale, oltre-il-reale, l'unico oggi davvero in grado di restituire gli infiniti piani della realtà, e di modificarla. Le lettere "disumane" sono lettere polimorfe, sovversive, capaci di ritrovare l'antico senso della "finzione": plasmare, creare. Romanzi non solo sull'uomo, piuttosto su tutto ciò che dell'uomo non è corollario ma materia viva. Tornando alla domanda iniziale: può la razza umana avere un lieto fine? Sì. È la letteratura stessa a poterne cambiare il destino." (da Antonella Lattanzi, Come salvare il romanzo dall'egemonia della fiction, "La Repubblica", 18/03/'11)

Staniamo i lettori dei geni ("Il Sole 24 Ore Domenica")

Dizionario dei luoghi fantastici


"Alberto Manguel e Gianni Guadalupi lavoravano insieme dall'editore Franco Maria Ricci quando, siamo negli anni Settanta, cominciarono a progettare un Dizionario dei luoghi fantastici. Anzi fu Guadalupi a cominciare. Aveva scoperto un romanzo, La ville vampire di Paul Féval, e aveva detto che gli sarebbe piaciuto compilare una specie di guida turistica della "Città vampira". Manguel, argentino, potrebbe essere un personaggio inventato da Borges. Non tanto perché da ragazzo fu uno dei molti che si prestarono a leggere per lo scrittore ormai cieco, ma proprio perché ha dedicato gran parte della sua vita alla lettura e alle biblioteche, traendone dei saggi dotti ed eleganti. Bene: il Dizionario che ora torna in libreria a distanza di trent' anni, aggiornato e rivisitato (Archinto) fece la sua prima comparsa in una edizione canadese che fu subito intercettata e recensita su queste stesse pagine da Italo Calvino. Questo libro, scrisse più o meno Calvino dopo averlo lodato e anche un po' criticato, dovrebbe entrare in quella Biblioteca del Superfluo che tutti dovrebbero avere.
Nella prefazione a quest'ultima edizione, Manguel, oltre a ricordare Guadalupi, scomparso nel 2007, dà anche conto di un accorgimento che i due autori escogitarono per aggiungere fantastico a fantastico: si inventarono di sana pianta due luoghi fantastici ... inesistenti. Il recensore del New York Times con entusiasmo ne prese per buono uno, dichiarando che il romanzo da cui era tratto lui lo aveva letto da giovane e si rammaricava che nessuno lo avesse mai citato fino a quel momento. Con eleganza Manguel sorvola sul fatto che qualche anno fa qualcuno compilò un analogo Dizionario servendosi a man bassa di questo: copiando, cioè, anche le due voci false, che si rivelarono dunque un ottimo antifurto. Il Dizionario è stato aggiornato perché negli ultimi trent' anni la letteratura non ha mai smesso di sfornare nuovi luoghi fantastici, mondi possibili o impossibili, anche di grande impatto sul pubblico, come ci insegna la saga di Harry Potter. La seconda voce di questa nuova edizione è "Abbazia" e subito si aggiunge tra parentesi: talvolta nota come Abbazia della rosa. Non è difficile indovinare, si tratta dell'Abbazia inventata da Umberto Eco per il suo Nome della rosa, che viene descritta come se (questa è la regola di tutte le voci) fosse un luogo autentico: la precisione innanzitutto. Non stupirà dunque che si possano addirittura annoverare due arcipelaghi di isole Fortunate, che vengono appunto trattati in due schede differenti. Del primo si ignora l'esatta ubicazione, mentre del secondo si sa che è situato all'imbocco del Mediterraneo. Naturalmente anche le fonti sono diverse. Il primo arcipelago delle Isole Fortunate è descritto in un anonimo viaggio di Panurgo uscito a Parigi nel 1538. Su un'isola vivono capre verdi dalle immense orecchie più morbide del velluto. Quando le bestie invecchiano gli abitanti tagliano loro le orecchie e le usano come mantelli. È notevole, aggiunge il dizionario, che le capre private delle orecchie si trasformino in belle donne. Le altre Isole Fortunate sono note fin dalla remota antichità. Le cita Omero, ma anche Cicerone e Plinio ne parlano e tra i moderni nominiamo almeno Walter Scott. Anche qui la vita è descritta come piacevole e il clima stabile e senza eccessi. A voler fare un censimento credo che le isole abbiano, tra i luoghi fantastici, il gradimento più alto, seguite dalle valli chiuse al mondo e dai castelli. Quella di Peter Pan è nominata come "Paese che non c'è", ma si tratta di un' isola, dove vanno a finire i bambini che cadono dalla carrozzina, in genere nei giardini di Kensington. Le bambine, aggiunge Barrie, sono troppo furbe per cadere dalla carrozzinae di fatto l'unica bambina ammessa in quel regno infantile sarà Wendy. Dell'Isola del Tesoro creata da Stevenson sappiamo molte cose: che è lunga circa dieci miglia e larga cinque e si trova al largo delle coste del Messico. Sappiamo anche che fu registrata per la prima volta su una carta nel 1754 a opera del capitano Flint che volle seppellirvi il suo tesoro pari a circa settecentomila sterline. William Golding inventò l'isola del Signore delle Mosche che dovrebbe essere nell'Oceano Indiano, mentre un' altra isola famosa, quella delle sirene, deve ancora ad Omero la sua più antica attestazione. I luoghi fantastici possono anche essere creati da scrittori ricchi di humour. Lewis Carroll, che ha inventato il paradossale paese delle meraviglie, è anche il titolare dell' isola dello snark, un non-luogo dove è opportuno recarsi con una cotta di magliae due polizze assicurative contro gli incendi e contro la grandine. A Luciano di Samosata dobbiamo invece un arcipelago delle zucche che si trova nell'Oceano Atlantico. Vi crescono zucche enormi che vengono svuotate e usate come imbarcazioni. Non stiamo toccando,è ovvio, che pochissimi punti di una immensa tramatura, dove accanto ai luoghi fantastici più popolari, tipo quelli creati da Verne o da Tolkien, se ne trovano di più rari. C'è per esempio Ishmaelia: un paese, recita la scheda, tra il Sudan, l'Etiopia e l'Africa Equatoriale francese. L'unico modo di arrivarvi è prendere il treno che parte da un piccolo porto italiano sul Mar Rosso. Dunque, dirà il lettore, siamo all'epoca delle colonie italiane: infatti il romanzo da cui nasce questo singolare paese è del 1938 e si deve a Evelyn Waugh, il sarcastico autore del Caro estinto. Il titolo originale è Scoop, a Novel about Journalists, ma in italiano era stato reso con L'inviato speciale. Il paese è isolato anche perché i primi missionari ed esploratori che vi giunsero nel 1870 furono mangiati fino all'ultimo uomo. Le potenze occidentali diedero allora l' indipendenza a Ishmaelia, che era abitata da tribù diversissime tra loro, prive di qualunque legame storico, religioso, linguistico. L'ideale, ghigna Waugh, per farne una repubblica. Tra i castelli vorrei almeno ricordare quello di Carabas, già appartenuto a un Orco e rilevato poi da un felino noto come Gatto con gli Stivali secondo la fiaba di Perrault, e quello di Dracula che sorge nei Carpazi sull'orlo di un terribile precipizio. Dice Manguel che la regola era quella di non considerare luoghi che fossero trasparenti allusioni a luoghi veri, come la Balbec di Proust o, aggiungo, la Cacania di Musil. Mi sembra giusto, quasi un criterio di economia. Non approvo invece l'esclusione dei luoghi fantastici creati da Disney o da altri autori di fumetti. In fondo sono stati tra i più popolari lungo tutto il secolo scorso e, lo si voglia o no, sono veri come tutti gli altri luoghi fantastici di questo godibilissimo dizionario." (da Paolo Mauri, Va' dove ti porta la letteratura, "La Repubblica", 18/03/'11)

lunedì 21 marzo 2011

The Shallows. What the Internet Is Doing to Our Brains


"La polemica tra apocalittici e integrati, risalente almeno all'apocalittico Socrate, che nel Fedro prevede disastri in seguito all'invenzione della scrittura e conseguente fine della cultura orale, quindi della memoria, si arricchisce di un nuovo tassello col saggio del giornalista americano Nicholas Carr, Internet ci rende più stupidi? (Raffaello Cortina). Carr è ascrivibile agli apocalittici, ma con molte distinzioni e sfumature: se il Baricco dei Barbari è un ottimista temperato, lui è un pessimista tranquillo. Ottimo divulgatore scientifico, si rifà qui, tra l'altro, alle ricerche sul cervello di chi legge condotte dalla neurologa Maryanne Wolf, autrice di Proust e il calamaro (Vita e Pensiero), già segnalato su queste pagine.
Le moderne tecniche di indagine neurologica hanno dimostrato che il cervello, un tempo ritenuto immodificabile, è invece plasmabile a seconda delle esperienze e delle attività del suo «portatore» umano (ma già Freud, prima di inventare la psicoanalisi, aveva fatto ricerche in questa direzione, arrivando in via congetturale a conclusioni analoghe. E curiosi esempi si trovano anche nei libri di Sacks). In tal senso aveva ragione Nietzsche, quando sosteneva che diventiamo ciò che siamo. Ad esempio una ricerca sui violinisti ha dimostrato che le aree cerebrali collegate coi movimenti della mano sinistra, quella che si muove sulle corde del violino, sono molto più sviluppate di quelle dei non violinisti. O che la parte di ippocampo deputata a immagazzinare ed elaborare le rappresentazioni spaziali è più ampia del normale nei tassisti, che peraltro sviluppano meno la parte delegata ad altro tipo di memorizzazioni: la continua elaborazione spaziale richiesta per guidare nel traffico produce una vera e propria redistribuzione della materia cerebrale. Non solo. E' stato provato sperimentalmente che anche un'attività soltanto pensata e non effettivamente agita modifica i circuiti cerebrali, a dimostrazione, sostiene Carr, che la res cogitans può influenzare e modificare la res extensa e che i nichilisti neurologici, col loro determinismo genetico, un po' esagerano.
Ora, secondo Carr, che può considerarsi un epigono di MacLuhan, l'elettronica non solo, come già altri media, si è affiancata al libro, simbolo per antonomasia della cultura tradizionale: grazie alla possibilità di trasmettere la parola scritta, lo sta di fatto sostituendo e trasformando.
Anche se i vecchi mezzi di comunicazione sopravvivono, e magari pure in buona salute, il futuro della conoscenza e della cultura è nei files digitali lanciati alla velocità della luce nel medium universale, il computer. Ormai con un solo strumento facciamo tutto: vediamo filme tv, ascoltiamo musica, leggiamo libri e giornali, scriviamo libri e articoli, impaginiamo testi, mandiamo e riceviamo messaggi, possiamo scaricare saggi altrimenti introvabili, consultare i cataloghi delle biblioteche, vedere quadri e addirittura visitare musei, raccogliamo foto e video casalinghi, li elaboriamo fino a renderli irriconoscibili, facciamo acquisti, paghiamo bollette, creditori e servizi, si possono organizzare manifestazioni, mobilitare le piazze ... e il tutto, o quasi tutto, in modo bidirezionale: con lo stesso strumento si può inviare e ricevere. Miliardi di persone si possono scambiare tutto ciò che è digitalizzabile e possono creare interattivamente.
Ma tutto ciò ha un costo, e pesante. La Bildung del passato era basata sulla concentrazione, lamemoria, la profondità, la fatica, anche del pensare (il famoso «duro lavoro del concetto»!). La rete, con i links che catturano la nostra attenzione per dislocarla immediatamente altrove, con le interruzioni pubblicitarie, visive e sonore, il suo indurci a navigare tra testi e pagine web senza mai nulla approfondire, la sua ipertrofia, e cacofonia, di dati e stimoli ci spinge alla distrazione, quindi all'impossibilità di elaborare mnemonicamente ciò che leggiamo o percepiamo. E la memoria vivente, quella che rimescola i ricordi del passato e crea relazioni, quella che alimenta i nostri pensieri, è molto diversa dal mero recupero di dati in un archivio elettronico. Ma senza quella memoria non siamo più capaci di storicizzare e quindi di sentirci collegati a un futuro e di progettarci.
Immersi in un eterno presente che gira vorticoso su se stesso, viviamo di schegge e frammenti. Neurologicamente più abili e veloci a risolvere problemi e a decidere fra alternative diverse rispetto al lettore concentrato nel silenzio del suo studio, ricchi di informazione decontestualizzata, rischiamo però di diventare prigionieri del meccanismo stimolo/risposta e di lasciarci sfuggire il significato che ci trascende. «Imbottiti di opinioni invece che sapienti, saccenti non saggi», come dice il re Thamus nel Fedro platonico." (da Gianandrea Piccioli, Internettando non cogito più, ergo non sum, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/03/'11)