mercoledì 30 settembre 2009

Capitalismo parassitario di Zygmunt Bauman


"Come il recente «tsunami finanziario» ha dimostrato, «al di là di ogni ragionevole dubbio», ai milioni di individui che il miraggio della «prosperità ora e per sempre» aveva cullato nella convinzione che i mercati e le banche del capitalismo fossero i metodi garantiti per la risoluzione dei problemi, il capitalismo offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli. Il capitalismo, proprio come i sistemi di numeri naturali dei famosi teoremi di Kurt Gödel (anche se per ragioni diverse ...), non può essere simultaneamente coerente e completo; se è coerente con i suoi princìpi insorgono problemi che non è in grado di affrontare (voglio ricordare che l'avventura dei «mutui subprime», sbandierata all'opinione pubblica come la via per mettere fine al problema dei senzacasa, quella piaga che il capitalismo, come è risaputo, produce sistematicamente, ha invece moltiplicato il numero dei senzacasa attraverso l´epidemia di pignoramenti ...); e se cerca di risolverli non può riuscirvi senza cadere nell'incoerenza con i propri presupposti di fondo. Molto prima che Gödel stilasse il suo teorema, Rosa Luxemburg aveva scritto il suo studio sull'«accumulazione del capitale», dove sosteneva che il capitalismo non può sopravvivere senza le economie «non capitalistiche»: esso è in grado di progredire, seguendo i propri princìpi, fintanto che vi sono «terre vergini» aperte all´espansione e allo sfruttamento; ma non appena le conquista per poterle sfruttare, le priva della loro verginità precapitalistica e così facendo esaurisce le fonti del proprio nutrimento.
Il capitalismo, per dirla crudamente, è in sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l´ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza. Scrivendo nell´era dell´imperialismo rampante e della conquista territoriale, Rosa Luxemburg non prevedeva e non poteva immaginare che i territori premoderni di continenti esotici non erano gli unici potenziali «ospiti » di cui il capitalismo poteva nutrirsi per prolungare la propria esistenza e avviare una serie di periodi di prosperità. In tempi recenti, abbiamo assistito a un'altra dimostrazione concreta della «legge di Rosa», ossia il famigerato affaire dei «mutui subprime» all'origine dell'attuale depressione: l'espediente di breve respiro, deliberatamente miope, di trasformare in debitori individui privi dei requisiti necessari per la concessione di un prestito, salvo che per la speranza (scaltra, ma in ultima analisi vana) che l'aumento dei prezzi delle case stimolato da una domanda gonfiata ad arte potesse garantire, come un cerchio che si chiude, che questi «nuovi acquirenti» avrebbero pagato gli interessi regolarmente (almeno per un po') ...
Oggi, a distanza di quasi un secolo da quando Rosa Luxemburg rese pubblica la sua intuizione, noi sappiamo che la forza del capitalismo sta nella straordinaria ingegnosità con la quale esso cerca e scopre specie ospitanti nuove ogni volta che le specie sfruttate in precedenza diminuiscono di numero o si estinguono; e nell´opportunismo e nella velocità, simili a quelle di un virus, con le quali si riadegua alle idiosincrasie dei suoi nuovi terreni di pascolo. Nel numero del 4 dicembre 2008 della "New York Review of Books", in un articolo intitolato The Crisis & What to Do About It, George Soros, brillante analista economico e praticante delle arti del marketing, presentava il percorso delle avventure capitalistiche come una successione di «bolle» che regolarmente si espandono al di là della propria capacità di tenuta e scoppiano non appena raggiungono il limite della resistenza.
L'attuale stretta creditizia non è il segnale della fine del capitalismo, solo dell'esaurimento di un altro pascolo ... La ricerca di un nuovo pascolo partirà quanto prima, alimentata, proprio come in passato, dallo Stato capitalistico attraverso la mobilizzazione forzata di risorse pubbliche (usando le imposte invece che il potere di seduzione, deficitario e temporaneamente non operativo, del mercato); si andrà alla ricerca di nuove «terre vergini» e si farà in modo, di riffa o di raffa, di renderle sfruttabili, fino a quando anche la loro capacità di rimpolpare i profitti degli azionisti e le gratifiche dei dirigenti non sarà stata spremuta fino in fondo. E come sempre – l'abbiamo imparato nel XX secolo da una lunga serie di scoperte matematiche, da Henri Poincaré a Edward Lorenz – un minimo scarto laterale può condurre al precipizio e far concludere l'avventura in una catastrofe; perfino minuscoli passi in avanti possono scatenare un´inondazione e concludersi con un diluvio ... L'annuncio di un'altra «scoperta», di un´isola che ancora non era segnata sulle mappe, attira frotte di avventurieri molto più numerose rispetto alle dimensioni e alla capienza del territorio vergine: frotte che in men che non si dica dovranno tornare alle proprie navi per scampare al disastro imminente, sperando contro ogni speranza che le navi siano ancora intatte, al sicuro nel porto ...
La grande domanda è quando si esaurirà l'elenco delle terre assoggettabili a «verginizzazione secondaria», e quando le esplorazioni, per quanto frenetiche e ingegnose, non garantiranno più un sollievo temporaneo. Non saranno quasi certamente i mercati, dominati come sono dalla «mentalità del cacciatore» liquido-moderno che ha preso il posto dei due approcci precedenti – quello premoderno del guardacaccia e quello solido-moderno del giardiniere – a porre questa domanda, loro che vivono passando da una battuta di caccia fortunata all'altra, fintanto che riescono a scovare un´altra occasione per rimandare il momento della verità, non importa se per breve tempo e non importa a quale costo." (da Zygmunt Bauman, Se il capitalismo è una malattia, "La Repubblica", 30/09/'09); brano da Capitalismo parassitario, il nuovo libro di Zygmunt Bauman, in uscita in questi giorni, Laterza)

martedì 29 settembre 2009

Leggere? E' da viziosi


"In maniera direi preoccupante escono, con sempre più fitta cadenza, libri che inneggiano - è la parola usata anche in alcuni sottotitoli - alla letteratura: al suo potere, alla sua bellezza, ai suoi 'segreti'. E, per farla breve insomma, all'amore che si deve ai libri. Forse c'è davvero di che allarmarsi: quando si comincia a far diventare un soggetto così banale come (dovrebbe essere) la lettura un evento addirittura romanzesco, viene da pensare che ci siamo: chi legge è soggetto quantomeno atipico, particolare, misterioso. Da fiction, appunto. Due romanzi, di Marie-Sabine Roger - Una testa selvatica (Ponte alle Grazie) - e di Frédérique Deghelt - Ti ho tradito con le parole (Frassinelli) - si assomigliano persino nella trama: due nonne voraci e segrete lettrici scoprono essenza dell'amore, complicità, intelligenze e chi più ne ha più ne metta (di buoni sentimenti) a suon di libri. Per questo preferisco di molto il miscuglio improbabile, casualmente e gioiosamente felicissimo che Vittorio Sermonti ha assemblato ne Il vizio di leggere (Rizzoli, copertina penalizzata da eccesso di rispetto verso il tema). Un'accozzaglia ben combinata di letture, il cui pregio è proprio quello di non essere edificanti per forza. Molto understatement (peccato solo l'autocitazione ...): grandi romanzi, certo, poesie immortali, ovvio, ma anche fogli d'occasione: giornali e giornaletti, album dei calciatori, etichette di liquori, tutti insieme disordinatamente. Così leggiamo, infatti, noi che leggere ci piace. A caso, di tutto, senza un vero motivo. A volte anche senza piacere per ciò che leggiamo. E convince parecchio un altro delizioso librino di Octave Uzanne, raffinatissimo bibliofilo d'altri tempi: questo La fine dei libri (La vita felice) è molto più avanti del tempo del tempo in cui fu scritto. Prefigura un'epoca in cui i libri non ci saranno più, sostituiti da aggeggi che 'declamano' i testi. Beh, la profezia non è così lontana dall'avverarsi, anche se la tecnologia ha preso direzioni un po' diverse da quelle immaginate da Uzanne. Ma niente paura: per i lettori, i libri ci saranno sempre. Per convincervene e per capire meglio quale sacralità sbilenca rivestano oggi i libri in Italia, leggete il diario di Giulio Mozzi - Sono l'ultimo a scendere (Mondadori; copertina eccellente). E' un libro che si potrebbe definire noiosamente costruttivo. Molto bello, intendiamoci: storielline strambe, un po' vere e un po' no, alla maniera degli Album che Peppe Pontiggia scriveva in queste pagine. Affiora, di tanto in tanto (fra treni presi ossessivamente, telefonate di seccatori, dialoghi in cui l'inciampo linguistico è la base sulla quale ragionare sul - non - senso delle parole), il rapporto diretto con i libri. Come quando lo scrittore e funzionario editoriale, viene 'sorpreso' a gettare via dei testi. Una vicina di casa lo rimprovera aspramente: 'Lei butta i libri?'. 'Sì', risponde Mozzi. Dopo altri rimproveri e ragionamenti bislacchi, Mozzi offre i libri alla signora: 'Li vuole lei questi libri?'. 'No', dice inorridita la signora. Ecco: chi ama i libri sa che se ne può liberare; chi non li ama teme questo gesto: pensa che un libro, come i diamanti, è per sempre. Non è per nulla così: un libro è esattamente ... fino al prossimo." (da Stefano Salis, Leggere? E' da viziosi, "Il Sole 24 Ore Domenica", 27/09/'09)

lunedì 28 settembre 2009

Fofi: "Pasolini & c.: come ci manca il Super Io civile"


"Per Goffredo Fofi l’inizio di tutto è stato il cinema. Non i libri ma i film. Tutto è nato, quand’era ancora bambino, con la passione per il grande schermo, in particolare quello italiano popolare, di Totò e di Matarazzo. E’ lui a spiegarlo, nella prefazione alla nuova edizione a cura della Cineteca di Bologna dell’Avventurosa storia del cinema italiano, scritta con Franca Faldini, l’attrice compagna di Totò. Originale collezione di testimonianze di cineasti d’ogni tipo apparsa alla fine degli Anni Settanta, l’opera torna aggiornata e integrata: il primo volume è andato in libreria quest’estate, altri tre usciranno entro il prossimo anno. «Il cinema fu per me la scoperta del mondo - scrive Fofi - e dal cinema arrivò tutto il resto, i libri, le riviste, e alcune scelte di vita».
Al tempo stesso si ristampa da Aragno il saggio L’immigrazione meridionale a Torino (1964) che rappresenta l’altro binario degli interessi e della produzione di Fofi, quello di carattere sociologico e politico. Non basta: l’editore Laterza pubblica La vocazione minoritaria, intervista sulle minoranze a cura del giornalista Oreste Pivetta, in pratica una biografia intellettuale di Fofi. Così questo navigatore anarchico delle patrie lettere, 72 anni, protagonista di esperienze educative, critico cinematografico e letterario, fondatore di riviste (da Quaderni piacentini a Ombre rosse a Linea d’ombra), autore di almeno duecento prefazioni o postfazioni per libri altrui, appare prepotente personaggio d’attualità: è l’occasione giusta per intervistarlo sul suo rapporto coi libri.
Lei racconta di essere cresciuto in una numerosissima famiglia della mezzadria umbra: come nacque in quell’ambiente la passione per il cinema? Andare al cinema era la regola oppure un’eccezione? «Era la regola. Come in tutte le famiglie semiproletarie anche nella nostra il cinema era un grande e frequentatissimo divertimento popolare. Al mio paese c’erano due sale cinematografiche, una dei preti e l’altra dei comunisti. In realtà facevano le stesse cose: potevi vedere Santa Bernadette dai comunisti e Sangue e arena dai preti. L’unica differenza era che dai preti c’erano più tagli delle scene un po’ spinte. Mi poteva capitare di andare al cinema tutte le sere, anche perché avevo uno zio che strappava i biglietti e mi faceva entrare gratis».
Come è avvenuto il passaggio ai libri e alle letture? Come è diventato un vorace lettore? «Che le devo dire? Perché ero curioso. I libri rappresentavano un normale allargamento dei miei interessi. Magari perché erano legati a film come Anna Karenina o Via col vento. A dieci anni, dopo la promozione in prima media, mia madre mi regalò i due volumi Garzanti che contenevano tutto il teatro di Ibsen. Il libraio doveva averla convinta di come Ibsen fosse imprescindibile per la mia formazione. Più grandicello, leggevo contemporaneamente l’Avanti! di mio padre e Grand Hotel di mia madre. Più avanti, in una stessa estate, lessi saltando dall’uno all’altro Delitto e castigo, Via col vento, Tom Sawyer e Grandi speranze. Passai dai giornalini ai Libri della Bur e ai Libri del Pavone, in un processo di alfabetizzazione che mi portò al libro che mi ha cambiato la vita: il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, tappa decisiva per uno intriso di meridionalismo come già io ero e diplomato maestro». Meridionalismo nel suo caso volle dire Danilo Dolci, quando lei partecipò all’esperienza sociale e educativa che Dolci aveva avviato a Partinico. «L’occasione era stato un fotodocumentario di Enzo Sellerio su Danilo Dolci. Ne ero stato talmente colpito da scrivere alla rivista Cinema Nuovo. Lui rispose invitandomi a Partinico e io partii per la Sicilia, accompagnato da mio padre. Con Dolci e con Capitini venni coinvolto negli scioperi alla rovescia, in cui gli operai lavoravano gratuitamente per la manutenzione di strade. Ma per la polizia era occupazione indebita di suolo pubblico, per cui la Celere ci arrestò tutti. Al processo c’erano Carlo Levi, Norberto Bobbio, Gigliola Venturi e l’arringa difensiva venne tenuta da Piero Calamandrei. Partinico e Dolci rappresentano per me un passaggio fondamentale: mi mettono in rapporto diretto con il cosiddetto mondo della cultura».
Come si manifestava questo rapporto? «Il primo libro con dedica che ricevetti fu di Franco Venturi. Paolo Milano, critico dell’Espresso, che allora si dava da fare per raccogliere consensi attorno a Danilo Dolci, mi presentava ai grandi scrittori stranieri. Da lì si svilupparono i meccanismi che mi portarono prima a Roma e poi a Torino, dove lavoravo al Centro Gobetti e correggevo bozze o rivedevo testi per la casa editrice di Giulio Einaudi. Raniero Panzieri mi affidò le pagine di Mafia e politica di Michele Pantaleone, un libro che provocò molti processi. Io italianizzai quella scrittura troppo sicula. Poi sono venute le riviste, ma il libro è sempre rimasto il mio punto fondamentale di lavoro e di conoscenza».
Ricorda gli autori, gli editori e i titoli prediletti? «Tolstoj moltissimo, più di Dostoevskij. Ma la mia passione era soprattutto per la letteratura italiana. Infatti la casa editrice che prediligevo non era Einaudi bensì Vallecchi, dove lessi un libro fondamentale: Novelle del Ducato in fiamme di Carlo Emilio Gadda, di cui possiedo la prima edizione. Importanti per me anche le olivettiane Edizioni di Comunità, per i tipi delle quali scopersi Lewis Mumford: un libro come La città nella storia letto a 20-25 anni ti segna per l’intera vita. Ti segna molto più dei vari Quaderni rossi, alle cui sedute di gruppo partecipavo, salvo scappare via di filata all’ennesimo incontro dedicato al Capitale. Inoltre intrattenevo un intenso rapporto con la letteratura francese perché i miei a un certo punto emigrarono in Francia e io andavo e venivo: ho conosciuto Foucault, ho ascoltato Barthes, andavo a sentire le lezioni sullo strutturalismo di Lévi-Strauss, manon ci capivo un’acca».
Lei era geloso dei suoi libri? «Quando stavo con Dolci e Capitini la proprietà privata mi faceva orrore, perciò la mia regola era che se qualcuno guardava un mio libro con occhio avido io glielo regalavo. Ho regalato il novanta per cento dei miei libri di cinema alla biblioteca della cineteca di Città del Messico, che aveva visto il suo patrimonio distrutto da un incendio. Così la mia biblioteca si è dispersa ai quattro venti, anche per i continui cambi di casa». Nella prefazione all’Avventurosa storia lei afferma che gli anni ’43-’63 sono stati i più vitali per la società italiana e che questa vitalità si è rispecchiata nel cinema. Il discorso vale anche per la letteratura? «Certo. Con il Gruppo ’63 si chiude un’epoca d’oro della letteratura italiana. Non c’erano solo Pavese e Calvino, Pasolini e Sciascia, ma anche Morante, Fenoglio, Brancati e Bilenchi, Volponi e Gadda e tutti gli altri. Se vai a vedere resti sbalordito: dopo la fase ottocentesca rinasce il romanzo italiano. Ogni anno un nuovo scrittore, un nuovo capolavoro, un nuovo caso. Ricordo una presentazione torinese di Una nuvola d’ira di Giovanni Arpino, con uno scontro fra Panzieri e un sindacalista comunista, forse Pugno, che non accettava gli operai raccontati nel romanzo, aveva in mente l’operaio massa, l’operaio di classe, mentre Panzieri, più raffinato, obiettava che gli operai sono anch’essi uomini in carne e ossa, con le loro debolezze e le loro ansie».
Nell’intervista con Pivetta, lei, invece, definisce gli Anni Ottanta «tra i più stupidi della nostra storia». Perché? «Perché segnano la fine delle utopie, la fine delle speranze, sono gli anni della new age, del culto del corpo, dello spiritualismo indiano, tutte quelle cose lì. Oggi mi sembra che la mercificazione dell’industria editoriale sia arrivata a limiti estremi: conta la merce, non la qualità. Nessuno si preoccupa della sedimentazione di valori. Oggi i libri servono per non pensare. Magari parlano dei temi d’attualità ma in una chiave facilona, consolatoria, sentimentale, in un continuo avvicendamento di mode e generi. Si sente il bisogno di un Super-Io civile: la letteratura italiana l’ha avuto in passato, mentre non ce l’ha più oggi. Pasolini, Sciascia, Calvino, Volponi, Giulio Bollati o Franco Fortini erano persone con cui potevi discutere con accanimento e magari litigare. Ne valeva la pena. Oggi con chi litighi?»." (da Alberto Papuzzi, Pasolini & c.: come ci manca il Super Io civile, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/09/'09)

Tra censura e bestseller


"In ordine di tempo, il caso più recente è quello di Liao Yiwu. Poeta, musicista, giornalista e scrittore inviso al Governo cinese, gli è stato formalmente impedito, tre giorni fa, di andare a Francoforte. Qualche settimana fa analoga vicenda, con protagonisti altri due autori: stavolta con qualche imbarazzo in più, visto che per Bei Ling e Dai Qing l'invito era stato revocato dagli stessi organizzatori della Buchmesse su richiesta del comitato organizzatore cinese. Insomma: c'è ancora molta strada da percorrere su temi quali la censura, la possibilità di schierarsi contro le istituzioni, la circolazione delle idee e molto resta da fare su una delle più delicate questioni che investe l'intera editoria mondiale, a Occidente come a Oriente: quella del diritto d'autore. Eppure la partecipazione della Cina come ospite d'onore alla Fiera del libro di Francoforte (dal 14 al 18 ottobre) non è 'prematura', come ha sottolineato il direttore della Buchmesse, Juergen Boos in un'intervista allo "Spiegel". Al contrario: 'è una grande opportunità, per noi e per loro'. Effettivamente se si pensa, come dice Boos 'che solo cinque anni fa non c'era un solo libraio indipendente a Pechino, mentre ora ce ne sono diversi' ci si rende conto che ove ci sono libri c'è terreno fertile per sviluppare le idee. Che, prima o poi, attecchiscono. D'altro canto la Cina resta ancora un grande mistero, dal punto di vista editoriale. I nomi più famosi ricavano spesso notorietà dall'essere contrari al regime più che dalla qualità della loro opera (ciò che nuoce, per esempio, a un grande scrittore e artista come il Nobel Gao Xingjian). Per questo Francoforte sarà l'occasione per vedere e ascoltare i volti più interessanti della letteratura cinese e di scoprirne molti altri. Quasi 50 autori, oltre 300 editori, una delegazione di oltre duemila persone: la calata cinese in Germania sarà, infatti, imponente. Come lo è stata la risposta tedesca: sotto la Fiera, nella sezione Books on China si annunciano oltre 350 novità (in tedesco) da 180 editori diversi. Tra i quasi 500 eventi connessi alla presenza cinese in Germania - e non a caso il tema scelto dal comitato è 'Tra tradizione e innovazione' - ci saranno star come Yu Dan, la professoressa diventata celebre per avere rilanciato un Confucio friendly (se ne parla in queste pagine) e Mo Yan, probabilmente lo scrittore cinese più conosciuto e tradotto nel mondo, ma anche astri nascenti sui quali gli editori si concentreranno. I più attenti osservatori (in testa Toby Eady, l'agente letterario che fa da ponte tra l'Occidente e Pechino) indicano il trentenne Xu Zechen, fondatore di "People's Literature", rivista che si occupa delle realtà meno esplorate della Cina, il poeta tibetano Alai e un'altra autrice che proviene dal giornalismo: Xinran. Dopo il successo del suo libro che raccoglieva le interviste alle donne cinesi, il suo prossimo lavoro, Messaggio da una madre cinese sconosciuta, se lo è aggiudicato un colosso come Random House. I numeri del mercato editoriale cinese - sempre piuttosto difficili da avere e soprattutto decifrare - parlano di una crescita che va di pari passo con quella economica: +10% all'anno. Il mercato potenziale è quello, sterminato, di un miliardo di persone. Cifra assolutamente inarrivabile, ovvio. Ma per partire bisogna almeno ragionare sui 275mila titoli pubblicati in Cina nel 2008 (+11& sul 2007), i 579 editori controllati dallo Stato e altre centinaia che iniziano a muoversi e gli oltre 10mila tra diritti e licenze acquistati dalla Cina nel 2007. Potrebbero esserci buoni affari. Anche per gli editori italiani. Oggi il peso dei mercati asiatici sull'export italiano di copyright ha raggiunto l'11,5%. Un numero che può crescere." (da Stefano Salis, Tra censura e bestseller, "Il Sole 24 Ore Domenica", 27/09/'09)

domenica 27 settembre 2009

Harry Potter espulso da scuola


"Centoventicinque anni fa Mark Twain pubblicava Le avventure di Huckleberry Finn: da lì discese, parole di Hemingway, tutta la letteratura americana. Oggi è uno die libri più censurati in patria. Lo ricorda l'American Library Association che dal 1982 organizza ogni fine settembre, la Banned Books Week. Dal 2007 sono 513 i volumi messi all'indice in alcune scuole medie e superiori e biblioteche pubbliche. Ma è una stima per difetto, avverte il report di Ala, che collabora con altre associazioni (National Coalist against Censorship, American Society of Journalist and Authors, ...) nella lotta alla censura, aggiornando la mappa dei luoghi del proibizionismo culturale su segnalazione dei cittadini: 'In questo modo riusciamo però a documentare solo il 20-30% degli episodi'. Nella black list compaiono Tony Kushner con il 'pornografico' Angels in America (in Italia è stato un recente successo teatrale), il 'blasfemo bestemmiatore' Cormac McCarthy con Child of God e l''ateo' Philip Pullman con The Golden Compass, pieno di messaggi 'anti-Dio e anti-cristiani' (ciononostante l'industria cinematografica ne ha ricavato un film da cassetta per famiglie). Falcidiati anche i best-selleristi più pop, da Ken Follett a Khaled Hosseini ('contenuti sessuali violenti, inclusi stupri e incesti'); i classici di Huxley e Scott Fitzgerald; le scrittrici Alice Sebold (too scary') e Joyce Carrol Oates ('sessualmente esplicita'). Religione, razza e sesso: questi i principali tabù da occultare. In alcuni casi si è arrivati a incriminare singolarmente le parole (ad esempio 'scroto' nel romanzo per l'infanzia The Higher Power of Lucky, incensato dal "New York Times"), atteggiamenti poco ortodossi, 'contro la famiglia tradizionale eterosessuale' (And Tango Makes Three, storia di due pinguini maschi che allevano un cucciolo), o i cattivi maestri, come quelli di Harry Potter che insegnano occultismo, magia e la 'Wicca Religion'. Persino il Nobel Toni Morrison è stata messa all'indice perché 'razzista', dimenticando che da sempre si occupa dei diritti della comunità afroamericana. Un''offensiva descrizione degli africani' l'ha pure data Hergé in Tintin in Congo: rimosso dagli scaffali della Biblioteca pubblica di Brooklyn, ora si trova nella 'stanza sul retro' ed è consultabile solo su 'appuntamento'. Questo è l'ultimo degli episodi documentati nella colta, radicale e chic New York. proprio dalla democratica East Coast proviene il maggior numero di segnalazioni. Tuttavia, è impossibile fare inferenze: si tratta di singoli, circostanziati e privati episodi, non imputabili a un programma statale o ai diktat di un fantomatico MinCulPop. Negli Stati Uniti anche la censura è liberal, frutto della libera scelta delle istituzioni scolastiche, che decidono a colpi di maggioranza di mamme e papà. 'Spesso è motivata dal desiderio di proteggere i bambini. Ma se le intenzioni sono lodevoli, questo metodo di protezione comporta seri pericoli', spiega Ala. Perciò da anni tenta di sensibilizzare l'universo genitoriale, oltreché studenti, insegnanti e bibliotecari: organizza dibattiti pubblici; divulga il 'manifesto' - una specie di trick da streghe macbethiane; diffonde la notizia ai quotidiani locali e sul web; a volte, ricorre alla giustizia. Quasi sempre il Tribunale non si sbilancia, come nel caso del prosecutor di Livingston County (Michigan): 'Se questo materiale (The Bluest Eye della Morrison) sia appropriato per i minori lo deve decidere il consiglio di classe, ma io trovo che non vi sia in esso alcuna violazione della legeg penale'. Appellarsi al I emendamento sulla libertà di culto, parola e stampa non sempre paga. Così Ala continua la sua campagna sul territorio, tra i cittadini: dalla California alla Virginia, dall'Ohio alla Florida, fino al 3 ottobre organizza dibattiti, reading e allestimenti scenici dei libri storicamente scomodi, da Lolita a L'amante di lady Chatterley, da Il giovane Holden a Uomini e topi. Più che tribunali e kermesse viene allora in soccorso il vaccino steinbeckiano contro il 'serio pericolo' denunciato da Ala: Lennie ama così tanto i conigli da accarezzarli fino al soffocamento. Troppo affetto nel pugno finisce in tragedia." (da Camilla Tagliabue, Harry Potter espulso da scuola, "Il Sole 24 Ore Domenica", 27/09/'09))

Quando verrai di Laura Pugno


"Non è necessario essere un lirico arcaico nelle tavole di un grammatico; ancor oggi un singolo frammento può rappresentare, fulmineo e senza residui, l'intera opera
di un poeta. Nell'incipit Verrà la morte e avrà i tuoi occhi si concentra tutto Pavese; e un discepolo di Pavese, Milo De Angelis, è tutto in questa cadenza di Millimetri: «In noi giungerà l'universo, / quel silenzio frontale dove eravamo / già stati». Mi sono venute in mente imperative, queste due steli verbali, leggendo ammirato l'opera (narrativa) terza di Laura Pugno. All'inizio mi avevano maldisposto, invece, le soglie del testo: la copertina rosa salmone, il titolo soprattutto, Quando verrai. Pareva uno di quei titoli fàtici - emotivamente ricattatorî - cui ci ha abituato l'industria editoriale (a partire, diciamo, da Ti prendo e ti porto via di Ammaniti). Tanto più a rischio essendo la storia, questa, di una bambina gettata nel mondo brutto, sporco e cattivo. Lo si temeva un titolo sentimentale, come in certo mélo di Vincente Minnelli: in salsa rosa, appunto. Tutt'altra, però, la tempra di questa scrittrice. Dopo i tormentosi Sleepwalking (Sironi) e Sirene, Laura Pugno si conferma - nomen omen - di gran lunga il più duro dei nostri narratori: opaca e tagliente come la «forma perfetta del sasso» con cui la preadolescente protagonista, Eva, si salva dagli umani che ne bramano le tenere carni. Dello stesso tenore è questa scrittura, sempre più tesa a un'asciuttezza aliena e terribile, come i corpi dei suoi personaggi «ormai privi di ogni strato di grasso»: «la sua bellezza non è perduta ma ha cambiato di segno». Tanto più vulnerano, così, le nervature della fabula, anzi della favola: e «le favole», si sa, «sono crudeli». Non siamo più in qualche futuro fantascientifico: questa desolazione suburbana di guard-rail, roulotte e buste di plastica non è che il nostro presente. E siamo noi questa umanità angosciata dal diverso, dallo straniero, dal «selvatico». Ma Eva, come nome le comanda, è l'inizio di una nuova umanità; una mutante insomma. Rispetto alle struggenti Sirene la sua diversità è meno conclamata - segnalata solo da certe macchie argentee sull'epidermide - ma ancora più tremenda. Come nel personaggio più esistenzialista dei molto esistenzialisti X-Men, Rogue, il suo potere è in effetti una maledizione: le basta toccare un umano per avere la visione dell'istante in cui questi morirà; uno sbocco di sangue alla gola, allora, la stordisce e assidera. Si capisce che molti dei mutanti, come quello che accompagna Eva in un viaggio onirico al termine della terra, non desiderino altro che porre fine a una simile esistenza. Quando verrai è un testo iniziatico. Un apologo spietato sul senso ultimo, e anzi ultimativo, della scrittura: quello di «ricordare il futuro», cioè di puntare sempre - come a una nera stella polare - all'Estrema Soglia di tutti noi. Ed è dunque uno dei pochi testi autenticamente tragici oggi concepibili: se è vero che il tragico tratta sempre l'ineluttabilità delle Cose Ultime. Il colore della copertina, si capisce allora, è quello della pelle urticata; e, come quello di Pavese, il titolo - simile alle domande che si rivolgono i personaggi - non tollera punto interrogativo. Non è un'ipotesi la morte, non si colloca nel futuro: davvero, è dove eravamo già stati." (da Andrea Cortellessa, Con la piccola Eva, verso l'estrema soglia, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/09/'09)

giovedì 24 settembre 2009

La morte segue i magi di Hans Tuzzi


"Come si fa per i pacchetti di sigarette, bisognerebbe aggiungere sulla copertina di questo romanzo una frase del genere: 'Attenzione, può essere dannoso per la salute. Chi lo legge è consapevole dei rischi che corre'. Stiamo parlando dell'ultimo libro di Hans Tuzzi, La morte segue i magi> (Bollati Boringhieri). Thriller pericoloso per la salute del lettore. Perché fa troppa paura? Acqua. O si tratta di una schifezza? Non ci siamo. perché, invece, La morte segue i magi contiene pagine di alta letteratura e di grande poesia, all'uso d'antan. Proprio qui sta il pericolo: una bella crisi di astinenza per il lettore curioso, intelligente e sensibile che, alla fine, si chiederà: e ora che faccio? Potrà certo, se già non li conosce, ripescare i quattro precedenti gialli di Tuzzi, tutti pubblicati dalle Edizioni Sylvestre Bonnard; che hanno, anch'essi, per protagonista il commissario Melis e la sua fidanzata Fiorenza (un altro commissario, dirà qualcuno. Sì, ma questo è speciale). E però, benché ragguardevoli, gli altri libri non valgono questo gioiello. Entità anomala, di questi tempi. Per il fatto che Tuzzi non fonda la sua 'letteratura' su modelli del cinema o della tv, o su qualche brandellino della propria vita privata assolutizzato a racconto. Si alimenta, invece, come era naturale un tempo, della grande letteratura del passato amata e fatta propria. E di qui anche il reticolo di criptocitazioni nostalgiche che costellano il libro: Leopardi, Manzoni, Dante, Montale, T. S. Eliot, Rilke, Pascoli, Baudelaire, Saba ... Amalgamate perfettamente nel testo. Con in più, un'ammirevole tonalità da vecchia lombardia - cuore romantico e ragione vigile - sul versante Manzoni-Gadda-Tessa. Se poi mai volessimo, per dirla alla buona, trovare il pelo nell'uovo in un libro che ci ha tanto colpito, dovremmo rilevare che, nell'intrecciarsi di storie che animano il romanzo c'è, forse, troppa carne al fuoco. [...] Quanta, infine, minuziosa eleganza e passione nella fattura meticolosa di un romanzo costruito con pazienza e poesia per singoli periodi. Forse, tuttavia, al di là della simpatia dei protagonisti e della malinconica grandezza di un assassino insospettabile, vero centro del romanzo è la grigia, luttuosa, odiosamata Milano di nebbie impure e di tetre piogge autunnali. Con l'orrore e la desolata tenerezza delle sue periferie e il retaggio consunto di un antico splendore. Popolata da persone che 'si incrociano come navi nella notte'. Per non rivedersi mai più." (da Giovanni Pacchiano, Giallo di sapore gaddiano, "Il Sole 24 Ore Domenica", 20/09/'09)

mercoledì 23 settembre 2009

Pahor: "Il mio secolo fra Trieste e il mondo"


"Come se si fosse rotta una diga. Libri, libri e ancora libri. A 96 anni Boris Pahor, triestino di lingua slovena, assiste con stupore e soddisfazione allo "scongelamento" di un quarantennio di opere sue che, dopo il successo un anno fa di Necropoli, vengono tradotte finalmente in italiano. Premiato e tradotto in mezza Europa ma sconosciuto fino a ieri nel suo stesso Paese, ora il patriarca col vizio della memoria, registra un bel tandem, con l´inedito autobiografico Tre volte no (Rizzoli) e il romanzo del 1967 Una primavera difficile (Zandonai).
Il vecchio è felice nella sua casetta a picco sull´Adriatico. La "riabilitazione" letteraria ha avuto effetti a cascata persino in Slovenia, dove pure è arcinoto: in un anno rilanciati cinque dei suoi libri. È richiestissimo, il telefono suona a ripetizione, e lui risponde a tutti, anche ora che Radoslava, la compagna della vita, lo ha lasciato. Al tramonto scendiamo nel suo bunker, oltre un orticello di pomodori. Si cala per ripide scalette con passo elastico, in tuta e mocassini. Oltre una porticina, montagne di libri, una Remington vecchia di quarant´anni, un lettino con un testo di Spinoza. «Qui - dice - ho vissuto la mia vita parallela. Riemergo solo per mangiare e dormire».
Primavera difficile è la storia di un suo amore francese, dopo la liberazione dal Lager. «Madeleine si chiamava. Per me che ero un naufrago dell´orrore fu la riscoperta della vita. Era la mia infermiera nel sanatorio di Villiers sur Marne dove guarii dalla tbc. "Mon petit" mi chiamava. Fu un regalo magnifico». Fino ad allora lei era stato in mezzo alla morte. «Per un anno e mezzo avevo vissuto fra corpi distrutti. Cataste, montagne, treni interi di corpi distrutti e bruciati come foglie secche. È stato allora che ho capito l´importanza e la benedizione di quella cosa che il secolo ventesimo degradava a un non-valore».
Che cosa? «Il corpo appunto. Il più bel dono che abbiamo. Io ho amato tanto il corpo femminile, ma è il corpo umano in generale che va amato e rispettato. Per uno come me che è tornato dall´abominio l´unica consolazione era pensare che l´umanità aveva in sé la possibilità di creare corpi nuovi e diversi, generazioni migliori».
Cosa fu per lei la Francia? «Era il 1946 e non avevo nessuna voglia di tornare a Trieste. A casa mia erano offesi che rimanessi lontano così a lungo, anche dopo la guarigione. Il problema è che a Trieste c´era il marasma. Manifestazioni continue. La città era passata senza interruzione dalla guerra alla guerra fredda».
Non è stufo di questa complessità di frontiera? «A volte vorrei avere vissuto in un luogo meno complicato di Trieste, ma a che serve essere stufi? Ormai ci siamo dentro e dobbiamo macinare ... Davvero non vedo alternative». Sente ancora così ostico questo suo luogo? «C´è chi rema contro ma qualcosa cambia. Ieri sono andato a Prosecco per un documento d´identità, e quando sono entrato l´impiegata, riconoscendomi, mi ha salutato con un "dober dan", il buongiorno in sloveno. Mi ha reso felice». E sul piano della cultura? «Qualche giorno fa ho affrontato una sala strapiena con Claudio Magris e ho detto che quando il poeta sloveno Kosovel potrà entrare nei programmi di studio delle scuole italiane, allora Trieste sarà un piccolo paradiso. Ho avuto un applauso di straordinario calore. Sì, le cose cambiano».
Professore, qual è il suo segreto?
«Aggrapparmi al presente. Nel campo di concentramento ho imparato a fare sempre qualcosa, senza pensare al passato e al futuro». Eppure lei al passato ci pensa eccome. Secondo alcuni anche troppo. «Me lo dicono in tanti. Gli sloveni post-comunisti mi accusano di rivangare cose morte e sepolte. Ma io non mollo, fino a quando il ventennio fascista resterà nell´ombra in cui si trova. Non si parla degli orrori che comportò. Il nazismo era peggio, mi contesta alcuno. E allora? Non è un buon motivo per archiviare tutto». Pensa che la memoria italiana sia a senso unico?
«Dico: sacrosanto che si sappia delle foibe. Ma altrettanto sacrosanto che si sappia del fascismo e soprattutto della sua aggressione alla comunità slovena. Bastonature, incendi, condanne a morte, cognomi e nomi cancellati, una lingua negata. E molti dimenticano che questo accadeva già vent´anni prima della guerra».
Pensa ci sia una rimozione? «Guardi cosa c´è scritto sulla targa bilingue che ricorda l´incendio alla casa di cultura slovena di Trieste. Si parla di "esagitati", non di fascisti. C´è un´ostinazione tenace e non ammettere l´innegabile».
Come visse da sloveno la proclamazione a Trieste delle leggi razziste contro gli ebrei? «Pensai: ecco, ora anche loro sono nella nostra condizione di perseguitati ed esclusi. Anche quelli di loro che avevano abbracciato il fascismo e magari erano stati antisloveni. Ovviamente non immaginavo l´orrore che si sarebbe scatenato di lì a poco col nazismo». Nel lager lei capì il destino degli ebrei? «Non fino in fondo. Non c´erano ebrei nei miei campi. Ma la gente passava egualmente per il camino. Bisogna stare attenti a ricordare che i forni crematori hanno incenerito anche tanti oppositori del regime e tanti prigionieri politici». La soppressione della lingua fu la sua prima ferita. «Fu uno choc tremendo. Ne parlo diffusamente in quest´ultimo libro-intervista dal titolo Tre volte no. Ero bambino e improvvisamente persi la mia identità. Un giorno fui umiliato in classe perché avevo sbagliato un verbo e il mondo mi crollò. Non ebbi nemmeno il coraggio di andare da mio padre».
Poi ha avuto le sue rivincite. «Durante la guerra, con ritardo, presi la maturità durante una pausa sul fronte libico. Passammo in quattro su quarantasei, fui il migliore in greco ... io che ero sloveno ... Le lingue mi salvarono ... Grazie al francese fui aiutato da un medico francese che mi face fare l´infermiere. Ma sapevo anche il tedesco, e con le SS che mi avevano imprigionato fu un vantaggio. Le lingue slave, poi, mi aiutarono con i prigionieri jugoslavi, russi, cechi, polacchi».
Qual è il suo primo ricordo? «Io e le mie due sorelline nel lettone dei miei con quaranta di febbre per l´epidemia di spagnola. Era il 1917. Una sorella morì. Deliravamo. E nessuno ci aiutava come famiglia». Lei invece è arrivato a 96 anni. Pensa di essere un uomo fortunato? «Mah. Più volte in situazioni difficili ho trovato persone che mi hanno aiutato. Ma che cos´è: fortuna o spirito di iniziativa?». Che pensa di Dio? «Mi sento panteista, come Spinoza, ebreo che gli ebrei maledissero. Credo che ci sia un disegno straordinario nel mondo. Ma non penso proprio che Dio si occupi di noi, che sia un padre affettuoso». E poi c´è il mare. «Io al mare ci parlo, non potrei vivere senza ... Il mare grande e ventoso di casa mia. È il mio amico migliore»." (Paolo Rumiz, Una vita difficile. Pahor: 'Il mio secolo fra Trieste e il mondo', "La Repubblica", 23/09/'09)

Secondo natura. Un poema degli elementi di W. G. Sebald


"Mi dispiace molto che i libri di W. G. Sebald non abbiano ancora suscitato in Italia l'ammirazione che meritano. Nato nel 1944 e morto nel 2001, Sebald è senza dubbio lo scrittore di maggior rilievo nella Germania contemporanea. Tra i suoi libri Adelphi ha pubblicato: Emigrati (1992), Il passeggiatore solitario (1998), Vertigini (1999), Storia naturale della distruzione (1990), Austerlitz (2001). Tra i lettori di Austerlitz, che credo il suo capolavoro, nessuno può dimenticare questo regno di morte e di fantasmi: queste allucinazioni impregnate di polvere: questa nebbia grigiastra: queste nubi color inchiostro: questo tempo che non si muove mai: queste stazioni ferroviarie simili a cattedrali e montagne: questa voce ossessionante e monotona, immobile come il tempo: questa lava che non finisce di fuoriuscire dagli abissi fino ad avvolgersi e a pietrificarsi attorno a noi, come una lava-parola. Tutto è rotto, spezzato, tragico, insostenibile. Austerlitz ha un doppio scopo: quelllo di ucciderci, uno per uno, lasciandoci cadaveri al suolo; e quello di redimerci, uno per uno, trasportandoci con un gesto inverosimile nella nuova Gerusalemme dell'utopia. In questi giorni esce l'edizione italiana di Secondo natura. Un poema degli elementi, nella eccellente traduzione di Ada Vigliani. E' un poema, anzi un poema in prosa come dice Sebald: che raccoglie tre poemetti: uno su Grunewald: un secondo su Georg Wilhelm Steller, un esploratore e scienziato del Settecento, che raggiunse il mare di Baring; entrambi bellissimi. Il terzo, di natura autobiografica, mi sembra meno riuscito. Il genio di Sebald fa di questi poemetti sia dei perfetti racconti in prosa sia dei perfetti tappeti poetici. Qualcuno parla fiduciosamente a ciascuno di noi; e insieme si scaglia contro tutti i limiti e i confini, distruggendoli con una forza che sembra alludere alla distruzione del mondo. Tutto viene distrutto: tutto viene superbamente ricostruito, da una mano per la quale distruzione e costruzione sono la stessa cosa. [...]" (da Pietro Citati, Il Cristo nello specchio di Sebald, "La Repubblica", 22/09/'09)

lunedì 21 settembre 2009

Mario Lodi: "La scuola ci salvi dall'Italia dei balocchi"


"Alla Drizzona, la bella cascina presso Piadena dove da un ventennio Mario Lodi guida le attività della Casa delle Arti e del Gioco da lui fondata, l'ultima calura dell'estate arretra davanti ai porticati ariosi. L'autore di decine di libri per ragazzi - a cominciare dall'indimenticabile Cipì - è ancora sulla breccia con lo stesso entusiasmo di quando, anticipando di una manciata di anni La lettera a una professoressa di Don Milani (Lef), con il suo C'è speranza se questo accade al Vho (1963) cominciò a riflettere sulle sue esperienze di maestro elementare. Di lì a poco, con Il paese sbagliato (1970), e non pochi altri saggi e variegate iniziative, compreso un giornale per bambini, divenne il simbolo del rinnovamento da operare dentro la scuola dell'obbligo. Un impegno che in Lodi non si è mai attenuato. Nato nel 1922, diplomato maestro nel 1940, di mutamenti ne ha visti tanti ma ora, davanti agli interventi che, impongono il maestro unico prevalente, riducono gli insegnamenti opzionali e altre attività che hanno sorretto la scuola del tempo pieno di cui è stato uno dei pionieri, osserva sgomento. E respinge deciso ogni proposta di classi inizialmente separate per gli alunni extracomunitari: «I bambini, quando arrivano a scuola, non sanno scrivere masanno tutti parlare, nelle loro diverse lingue. E la parola è la ricchezza immensa che non va chiusa in ghetti ma educata al dialogo. Solo così il bambino, come auspica la nostra Costituzione, diventa il cittadino del futuro ...».
Lodi porta dritto dritto i suoi 87 anni e, se gli si chiede di ricordare i primi libri che gli arrivarono sotto gli occhi, non ha dubbi: «Sono nato proprio nell'anno della Marcia su Roma e uno dei primi libri che mi diedero da leggere a scuola, e che mi si è stampato nella memoria, raccontava le avventure del balilla Vittorio».
Era quello scritto da Roberto Forges Davanzati? «Sì, stampato dalla Libreria di Stato, era una sorta di Cuore trapiantato dentro le liturgie del Regime. Seguendo le vicende quotidiane di Vittorio tutti gli scolari italiani di quinta venivano coinvolti nei passi fondamentali dell'edificazione mussoliniana. Erano con lui alle grandi adunate, festeggiavano il Natale di Roma, partecipavano alla Befana fascista. E andavano a vedere i lavori di bonifica nell'Agropontino ...».
Per fronteggiare lo zelo del Balilla Vittorio servivano robusti antidoti. Chi li ha riforniti? «Mio padre, operaio di simpatie socialiste. Portava a casa romanzi che appartenevano alla tradizione popolare. Con personaggi che mi insegnavano cosa era la vita e come starci da uomini giusti. Mi colpiva il Remi vagabondo e curioso delineato da Hector Malot in Senza famiglia. Oppure l'affollato palcoscenico de I miserabili. Un libro che si è così inciso nel mio cuore, tanto che ho chiamato Cosetta mia figlia, proprio come la ragazzina che trova in Jean Valjean un padre giusto e coraggioso ...».
I libri come antidoto alla propaganda di regime. E poi? «Nel contesto, molto semplice e popolare, in cui viveva la mia famiglia i libri trovavano un forte apprezzamento. La padrona della fabbrica dove lavorava mio padre per Natale, ai figli dei dipendenti regalava libri. Testi diventati per me significativi: ricordo ancora un'edizione del Tartarino di Tarascona di Daudet. Mi aveva
conquistato almeno quanto le pagine del Corrierino dei Piccoli che cercavo, ogni settimana, di non perdere. Ero già alle medie quando su Topolino dell'editore Nerbini, che poi editerà L'avventuroso, fu pubblicato il primo fumetto delle avventure africane di Cino e Franco, due ragazzotti che l'autore, un americano, catapultava in un'improbabilissima giungla. Un successo strepitoso ...».
Poi con le superiori e l'inizio dell'insegnamento saranno arrivate le letture più impegnative ... «Paradossalmente un segno meno rilevante mi è stato lasciato dai libri importanti, dai classici che alle Magistrali ci dicevano di leggere. Certo fui colpito da un brano di Tolstoj che parlava della scuola avviata nella sua tenuta per i figli dei contadini. Ma rispetto alla pedagogia, al rapporto col bambino, a scuola trasmettevano solo nozioni e mai messe in discussione. Col Rousseau de L'Emilio e, ancora di più, con le intuizioni pedagogiche di Maria Montessori o il "metodo naturale" di Célestin Freinet, ho fatto i conti più avanti, sul lavoro. Tra i banchi delle mie classi che erano sempre in scuolette di questa mia campagna cremonese, sperdute e tuttavia investite più che mai dai cambiamenti in atto nel Paese. Dall'emigrazione per esempio che portava qui dal Veneto e dal Meridione schiere di lavoratori che si avvicinavano ai centri industriali ma non potevano permettersi di abitare in città ...».
Lì cominciarono le esperienze del testo libero, del calcolo vivente, della pittura come libera espressione del bambino? «Sì. I giornali di scuola, le inchieste condotte dai bambini raccontate in C'è speranza se questo accade al Vho. Appena prima dell'uscita di Lettera a una professoressa un amico giornalista, Giorgio Pecorini, mi aveva portato a Barbiana. Voleva che Don Milani e io ci conoscessimo. E per due giorni, su nel Mugello, fui tempestato dalle domande di don Lorenzo: voleva sapere tutto, ma proprio tutto, su come lavoravo in classe ...».
Intanto i diari del lavoro compiuto con i suoi ragazzi nel corso dei diversi anni scolastici confluivano in un altro suo testo: come nasce Il paese sbagliato? «Lo avevo fatto leggere nella sua prima stesura a Gianni Rodari
che aveva suggerito a Giulio Einaudi di pubblicarlo subito. Eravamo tra il 1969 e il 1970. Ricordo che Einaudi è venuto qua da me, a Piadena, con le bozze de Il paese sbagliato e mi ha dato ventiquattro ore di tempo per tagliare cento pagine, così da alleggerire il tutto. Ventiquattro ore, perché stava andando a Colorno dove Basaglia, che era appena arrivato da Gorizia per dirigervi il manicomio, doveva consegnargli un suo nuovo libro che doveva uscire contemporaneamente al mio. Penso fosse La maggioranza deviante scritto con la Franca Ongaro. Comunque quando Einaudi ha rimesso piede qui io avevo finito il mio lavoro di riduzione del testo. Dopo la pubblicazione, iniziò un impegno di convegni, conferenze, viaggi durato anni ...».
Continuato anche dopo che ha concluso l'insegnamento ... «Certo, un'attività di seminari, laboratori, incontri che continuano qui alla Casa delle Arti e del Gioco che ho costituito nel 1989 con i proventi del Premio Internazionale Lego che avevo appena vinto. Un impegno che ha investito anche il tema, affrontato in alcuni miei libri, del rapporto dei bambini con la televisione. Non ho mai condiviso alcuna demonizzazione verso la Tv, sin da quando l'ho vista la prima volta dietro la vetrina dell'elettricista di Piadena. Ma piuttosto l'urgenza di farne capire le opportunità e i rischi ...».
Dunque prefigurando un futuro che adesso è arrivato ... «Per la verità è un futuro che stava già dentro uno dei libri che ho amato di più, il Pinocchio di Collodi. Lì c'è già tutto sul tragitto che porta il burattino a diventare bambino o viceversa. Quando il cittadino diventa un burattino manovrato dagli altri. E sui Mangiafuoco, o il Gatto e la Volpe che ci vogliono convincere che c'è un campo dove nella notte crescono gli zecchini d'oro, c'è qualcosa da aggiungere rispetto a quanto scriveva Collodi?».
E qualche libro ancora che spieghi come girare le spalle al Paese dei Balocchi e tornare a scuola, dai buoni maestri ... «Allora bisogna leggere Ultimo banco. Per una scuola che non produca scarti. Lo ha scritto Sandro Lagomarsini, un prete che da trent'anni a Cassègo, un borgo sperduto dell'Appennino ligure, ha aperto un doposcuola sulle orme di Don Milani. E' stato pubblicato adesso dalla stessa Libreria Editrice Fiorentina che aveva fatto uscire il libro del priore di Barbiana. E poi c'è un altro libro ancora che mi è piaciuto. E' L'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. Parla di come un uomo solo - con alberi piantati pazientemente l'un dopo l'altro per anni, e seguiti con cura - possa far rivivere una vallata brulla ...». Sentendo parlare Lodi dagli alberelli il pensiero corre ai ragazzi che stanno per varcare, in questi giorni, la soglia delle nostre scuole. Riusciranno a rinverdire questo Paese?" (da Giorgio Boatti, La scuola ci salvi dall'Italia dei balocchi, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/09/'09)

Mazzantini: "Non mi vergogno di far piangere"


"'Autrice popolare? Certo, perché no. Scrivo per raggiungere le persone, non sono una scrittrice ombelicale. Io scrivo affacciata alla finestra, sono gli altri a starmia cuore. E con quattro figli mis ento una gladiatrice della vita, col coraggio di correre dei rischi. Credo di averne corsi molti, in Venuto al mondo, perfino quello del ridicolo. Il vero premio è avercela fatta, a volte piangendo per le storie dei miei personaggi e di quella guerra'. Margaret Mazzantini, vincitrice del Campiello con settanta voti di scarto della giuria popolare, al terzo romanzo dopo Il catino di zinco che perse la finale a Venezia nel 1994 e Non ti muovere che vinse lo Strega nel 2002, rivendica fieramente quelli che ai detrattori pososno apparire difetti: 'Ho scritto com amore e disperazione. Il risultato non è affatto un libro semplice, affronta della maternità in un modo molto contemporaneo e il dolore e gli orrori di una guerra, quella a Sarajevo, che resta una macchia nella coscienza dell'Occidente'. Venuto al mondo è stato un successo: 370 mila copie conteggiate dall'editore Mondadori, dall'uscita in ottobre. Ma non pensa che il timbro emotivo sia un po' troppo 'facile'? 'Tutt'altro. Gli argomenti che tocco mi sembrano abbastanza scabrosi da escludere che sia andato a ruba come lettura estiva senza pensieri ... Il libro è partito come un diesel, dopo l'uscita è scattato il passaparola, e il suo cammino è proseguito tutta l'estate. A giudicare dalle lettere che ricevo, credo che i lettori abbiano riconosciuto alla mia scrittura di aver affrontato temi e sentimenti dolorosi importanti. E per me i libri hanno senso se ti possono scaldare un po' il cuore, come mi capita da lettrice di fronte agli autori che amo'. [...] La sua vittoria al Campiello sembra raccontare una stagione letteraria agli antipodi di quella rappresentata allo Strega: là duello all'ultimo voto tra scrittori molto legati allo stile, qui prevalenza di scrittrici e palma a una storia di sentimenti e passioni ... 'Penso che i premi letterari dipendano fondamentalmente dai libri in gara. Io sono un'outsider e mi piace accorgermi dal voto di una giuria popolare che, in tempi in cui sembra non si sappia più distinguere un sapore dall'altro, a volte viene premiato un approccio meno leggero alla realtà. D'altra parte anche la scelta etica di occuparsi di vittime non sembra particolarmente di moda, quando si vive tra leghe, ronde e istinto di chiudersi in se stessi'. Quando partecipò per la prima volta al Campiello con Il catino di zinco, nel 1994, in cinquina c'erano Antonio Tabucchi, che vinse, Arbasino, Pontiggia e Biamonti. Quest'anno è stata una gara più facile? 'Diciamo che allora fu un finale con concorrenti formidabili. Ma credo anche di poter aggiungere che da parte mia ho aspettato a lungo, sette anni, per pubblicare l'anno scorso il libro che sentivo di voler scrivere. Mi è riconosciuto anche dai detrattori che sarebbe stato più semplice fare un romanzo più simile a Non ti muovere, che ha venduto un milione e mezzo di copie, anziché arrischiarmi a cambiare radicalmente, come finora ho fatto a ogni nuovo libro'. Perché ha scelto la guerra in Bosnia come tema? 'Avevo inziato a pensarci già a tragedia in corso, nel '91. Ricordo quei giorni in cui mio figlio Pietro, che avrebbe poi dato il nome al figlio della protagonista del libro, era appena nato. Avevo di fronte quello che mi appariva come un regalo meraviglioso, e nel frattempo la tv trasmetteva immagini terribili. A pochi anni dalla caduta del Muro, passammo tutti dalla speranza in un futuro di pace alla certezza che l'orrore poteva ancora scatenarsi nel cuore civile dell'Europa. Lo spunto iniziale viene da lì, e dal tema della maternità opposto alla morte, anche se allora non riuscii a farne un romanzo. Ma la bottega dello scrittore è come una buona casa: nasconde, non ruba. Così dopo aver finito un altro libro del quale non ero abbastanza contenta da pubblicarlo, e averne lasciato un altro a metà, ho ricominciato a sviluppare quell'idea. E ho impiegato un anno difficilissimo a terminarlo'. Ha molti manoscritti lasciati nel cassetto? 'Mi considero più un'artista che un'intellettuale e credo in quello che romanticamente si chiama 'dono del talento', ma credo anche che il talento sia lavoro quotidiano: ho scritto tutti i giorni della mia vita, e naturalmente solo una minima parte è diventata libro. Con Simenon, in fondo penso anch'io che lo scrittore abbia una vocazione all'infelicità'." (da Maurizio Bono, Non mi vergogno di far piangere, "La Repubblica", 07/09/'09)

sabato 19 settembre 2009

Imparate la storia dai romanzi


"La voce del narratore evoca, rammenta, descrive, vola nel tempo. Osserva la Storia dall'interno dei eprsonaggi e quello sguardo può catturare chi legge dando una chiave diversa, più sfaccettata e vivida nel flusso di emozioni. Spiega l'israeliano Abraham B. Yehoshua, potente cantore dell'identità ebraica, autore di romanzi densi di storie e Storia come L'amante, Un divorzio tardivo, Il signor Mani, dove le generazioni di una stessa famiglia scorrono per due secoli nei monologhi frammentati di chi è stato causa o testimone della sorte famigliare; e ancora di Ritorno dall'India e di Fuoco amico, il libro più recente, specchio delle dolorose ambiguità della questione israeliano-palestinese: 'In un buon romanzo l'identificazione del lettore con le persone inventate dall'autore può sollecitare una comprensione dei fatti tanto più incisiva e pregnante di quella che arriva a comunicare un libro di Storia. Certi romanzi sull'Olocausto ne hanno trasmesso lo spirito e i sentimenti con più forza di montagne di saggi'. Yehoshua sarà al Festival Pordenonelegge come vincitore del premio FriulAdria 'La storia in un romanzo', che gli sarà consegnato a Pordenone il 19 settembre. Riconoscimento di uno scrittore che ha radicato sempre nelle profonde ragioni della Storia il suo estro mitico e il suo culto dell'umano. Abraham Yehoshua, nel dirci la Storia, un romanzo può davvero essere più efficace di un saggio? 'Pensi a Guerra e pace. Scritto quarant'anni dopo gli eventi narrati da Tolstoj, ha riversato nella memoria collettiva la guerra di Napoleone contro la Russia molto più di centinaia di ottimi manuali'. [...]" (da Leonetta Bentivoglio, Imparate la storia dai romanzi. Yeshoshua: "Guerra e pace è più utile di un saggio", "La Repubblica", 16/09/'09)

Rime al femminile. Da Antonia Pozzi alla Spaziani, da Gabriella Sica a Vivian Lamarque, un ventaglio di voci sempre radicate nella realtà


"Con Antonia Pozzi abbiamo ormai scavalcato un anniversario (i settant'anni dal suicidio avvenuto a soli 26 nel 1938), ma giunge in ogni caso utile la riproposta di Tutte le opere (non proprio tutte, in verità) per ribadire l'altezza poetica a cui è pervenuto un itinerario fatto di «fragilezza ardente», di vita aggrappata a spazi esili, di solitudini interiori, di rigore intellettuale e morale, di terre promesse, di soglie smarginate, di gioie tempestose, di anafore sentimentali, di tragico destino (una testimonianza «a latere» si segnala nel volume di Marco Dalla Torre, Antonia Pozzi e la montagna, Àncora Editrice).
Proprio a cominciare dalla Pozzi, ciò che imprime un fascino speciale alla poesia femminile è la testimonianza di un verso radicato nel reale, la continua ricerca di un senso che si incardina anche nel significato, nella sua leggibilità, nella sua comunicabilità, nella corrispondenza e utopistica coincidenza della necessità di dire e della parola capace di articolarne la voce. Come testimoniano alcuni altri libri appena pubblicati, che appartengono a poetesse diverse, ma tutte avvinte alla morsa delle cose, al dominio di una scrittura limpida e concreta. Ciò che accade puntualmente con i versi di Maria Luisa Spaziani «Vorrei mordere il tempo come il pane, / lasciarci il segno dei miei denti»), tratti dal libro appena uscito, L'incrocio delle mediane. Poesia di voce netta, di taglio classico, di misura bilanciata, di equilibrio ironicamente regolatore, fino alla metastasiana (e pascoliana o caproniana) leggerezza di questa icastica quartina siderale: «San Lorenzo piangente / su pianure infinite. / Tutta la notte il cielo/ sfoglia le margherite». Pur lavorando di schiettezza e trasparenza («Se la forza della semplicità va diritta al cuore», come dice un primo verso) alle virgiliane «lacrimae rerum» (ricordo anche un racconto di Verga) allude il titolo del libro di Gabriella Sica, Le lacrime delle cose, costruito con parole libere, come scrive Paolo Lagazzi, «dalle oscurità e dalle costrizioni mentali del modernismo simbolista». E del resto, è la stessa Sica della Poesia per Cecilia a innescare domande affannose e cruciali, sicuramente retoriche: «Amare tanto amare troppo amare il reale./ Questo l'odioso torto? Questi gli imperdonabili errori?». Incontri, abbandoni, strazi, tempi, spazi, viaggi, occasioni in un libro unitario, che dalle deliziose «Poesie piccolette» fino alle più elaborate costruzioni (in versi anche lunghi) dei componimenti di dimensione maggiore si tiene alla saldezza degli incontri: tanto con i vivi quanto con i morti, a cui sono dedicate le terzine di un canto fermo e commovente. «Poesie piccolette» (di casta e smaliziata innocenza) sono da sempre quelle di Vivian Lamarque, che ci fa ora la sorpresa di un recupero curioso, collocabile come scheggia (minore, ma non impazzita) nella tradizione dei Tessa e dei Loi: la raccoltina La gentilèssa, scritta per altro - la stessa Lamarque ammette - in un milanese «alquanto improbabile» (come registra l'intervista rilasciata a Barbara Tolusso pubblicata in coda al libro, l'autrice è nata in Trentino ma milanesi erano i genitori adottivi). Adesione a una lingua di cose, a un mondo d'infanzia e di casa, che parla di fatti piccoli e grandi, di luminii e sconforti, di luoghi della Milano «brütta bèlla» perché legata all'amore e al disamore, ai sogni di sempre, ai desideri fatti di tutto e di niente. Da Novella Cantarutti a Nelvia Del Monte, da Assunta Finiguerra a Bianca Dorato, da Franca Grisoni a Ida Vallerugo, ancora voci «dialettali», infine, nell'antologia Cinquanta poesie per Biagio Marin, a cura di Anna De Simone. Al di là della resistenza del mezzo, un florilegio che conferma sia la qualità di tanta poesia «al femminile» sia la sua propensione realistica, che è poi - prima di tutto - energia di radicamento nella parola e nel cuore." (da Giovanni Tesio, Le donne sono più limpide e concrete, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/09/'09)

venerdì 18 settembre 2009

Censura. Una storia d’amore irania­na di Shahriar Mandanipour


"In una Teheran misteriosa e caotica, dove il profumo dei fiori di primave­ra si mescola al puzzo di monossido di carbonio e le motociclette diven­tano taxi improvvisati in un traffico da de­lirio, una ragazza che manifesta davanti al­l’università sta per diventare l’eroina di una storia più grande di lei. «La ragazza non sa che esattamente sette minuti e set­te secondi dopo, al culmine degli scontri tra polizia, studenti e militanti nel Partito di Dio, sarà travolta nel caos delle cariche e delle fughe, cadrà all’indietro, batterà la testa su uno spigolo di cemento e chiude­rà i suoi occhi orientali per sempre». Rara­mente un’opera letteraria ha anticipato con maggiore puntualità una tragedia co­me la morte di Neda Agha-Soltan, la ragaz­za iraniana uccisa negli scontri tra studen­ti e polizia lo scorso giugno, la cui morte ripresa in video è diventata l’anima delle proteste durante l’ultimo contestatissimo trionfo elettorale di Ahmadinejad. Ma di puntualità davvero si tratta, se si pensa che Censura. Una storia d’amore irania­na, il romanzo di Shahriar Mandanipour che Rizzoli ha appena mandato in libreria nella traduzione di Flavio Santi, è uscito negli Stati Uniti proprio du­rante le passate elezioni in Iran. Ed è di­ventato immediatamente un «caso» sui giornali e nei circoli letterari americani per molti buoni motivi, a cominciare al suo inizio tristemente profetico. Gli altri motivi sono legati al metodo postmoder­no usato dall’autore per interrogarsi sui li­miti e le possibilità dello storytelling in uno Stato totalitario. Su cosa significhi cioè «narrare» in un Paese dove l’immagi­nazione può condurre alla galera; dove il linguaggio deve farsi ipercreativo per aggi­rare divieti culturali durissimi; e dove il semplice dare forma a una storia d’amore tra un ragazzo (Dara) e una ragazza (Sara) diventa una sfida, sullo sfondo di un Pae­se dove due giovani non sposati non pos­sono né incontrarsi né tenersi per mano né guardarsi negli occhi in pubblico. Ma per capire meglio dove nasce l’inte­resse per un libro complesso come Censu­ra, bisogna andare a pagina 16, dove Shahriar Mandanipour — o il suo alter ego letterario — si presenta al lettore di­cendo: «Sono uno scrittore iraniano stan­co di scrivere storie cupe e amare, popola­te da fantasmi e narratori passati da tem­po a miglior vita, con prevedibili finali di morte e distruzione». Uno scrittore cin­quantenne, aggiungiamo noi, che scrive in farsi per un pubblico che non può leg­gerlo (essendo in Iran censurato) e pensa in inglese per un pubblico americano col­to; che è stato critico cinematografico, di­rettore di una rivista letteraria e autore di racconti, prima di emigrare negli Stati Uni­ti nel 2006, dove Harvard gli ha offerto un posto di writer in residence che occupa tuttora. Pieno di energia, ironico, erudito e am­biziosissimo, Mandanipour ha scritto un romanzo che è tre cose in una: la storia di un amore segreto tra due giovani nella cu­pa Teheran di oggi; la storia dello scrittore di quella storia costretto, per poterla raccontare, ad aggirare con mille compromessi l’inevitabile censura; e una riflessione su il modo in cui arte e vita possono mescolarsi nella realtà e sulla pagina. Chi ha visto i film di Michel Gondry o ha letto Diario di un anno cattivo di Coetzee sa di che cosa stiamo parlando. Con queste premesse, ecco che la storia di Dara (trent’anni) e del suo amore per Sara (ventidue) diventa un escamotage per parlare d’altro. Dunque: Dara vede Sa­ra per la prima volta a una dimostrazione davanti all’università. Comincia a seguirla in biblioteca ma, siccome non può parlar­le, escogita un sistema per mandarle mes­saggi cifrati attraverso i libri che la ragaz­za prende in prestito (un classico persia­no ma anche Saint-Exupéry, Bram Stoker e Kundera). Impossibilitati a incontrarsi in pubblico, Sara e Dara si danno appuntamento in luoghi affollati: un museo, un pronto soccorso. E mentre la loro storia d’amore si incendia senza consumarsi, l’autore che la racconta è costretto a misurarsi con la penna del censore che la passa al vaglio (molte frasi sono cancellate) e a cercare di aggirare i suoi divieti. Tutto questo mentre la storia d’amore che continua a scorrere sulla pagina perde importanza a scapito delle avventure creative dell’auto­re e i personaggi gli sfuggono di mano (al punto che verso la fine il censore s’inna­mora di Sara e chiede allo scrittore di ucci­dere Dara per avere via libera con la ragaz­za). Dunque è la censura la vera protagoni­sta di questo romanzo. Una censura eleva­bile ad arte che è la vera ragione, secondo Mandanipour, per cui «gli scrittori irania­ni sono diventati i più educati, i più male­ducati, i più romantici, i più pornografici, i più politici, i più realisti e i più postmo­derni del mondo». Non grazie alla nostra cara vecchia libertà di espressione che può intimorire le menti più navigate. Ma grazie a una tirannia che nella sua stupidi­tà non si accorge di essersi trasformata nella madre di tutte le metafore." (da Livia Manera, A Teheran l'amore sfida la censura, "Corriere della sera", 18/09/'09))

mercoledì 16 settembre 2009

Appestata, invivibile, bellissima la Milano di Raboni


"Non ha mai 'creduto alla favola di Milano capitale morale' Giovanni Raboni, l'intellettuale scomodo di cui siamo ancora più orfani a cinque anni dalla scomparsa. Che cosa avrebbe detto dell'Expo? Chissà se oggi avrebbe ripetuto 'La Padania cosa diavolo è?'. La sua eredità resta nei libri, vera e propria memoria per il futuro di questa metropoli 'cattolicamente caotica, incosciente e invivibile'. 'Una città come questa non è per viverci, in fondo: piuttosto / si cammina vicino a certi muri, / si passa in certi vicoli ...' aveva scritto Raboni ricordando, con qualche provocazione attuale, la Milano degli untori di manzoniana memoria. Rendergli onore con una mostra di libri è forse l'omaggio migliore, specie se avviene nella biblioteca dove batte ancora più che altrove il suo cuore: a Porta Venezia. Qui, in via San Gregorio, l'autore di A tanto caro sangue nasce nel 1932: 'le finestre di casa non davano più sui binari: la nuova stazione in stile egiziano-floreale ci stava ormai alle spalle'. E' una misteriosa zona di frontiera: 'da una parte i condomini fastosi della borghesia mercantile e dall'altra le lugubri case d'affitto di negozianti', con 'l'affascinante pullulante casbah della prima emigrazione meridionale'. Per il giovane poeta lo stupendo piazzale ventoso di Porta Venezia si trasforma in porto di mare 'con le bancarelle di libri usati e gli sfiatatoi del diurno'. Corso Buenos Aires è poi una San Francisco 'con i cinematografi profondi come caverne, i labirintici negozi di scarpe a buon prezzo, le vetrine di animali vivi, le domestiche somali, pensionati, magnaccia ...'. In zona tornerà a vivere dopo aver abitato in altri luoghi, cantati fin da Le case della Vetra del '66, come quel 'Naviglio a due passi, la nebbia era più forte, / prima che lo coprissero'. Non sempre sono scorci idilliaci: 'non era certo un posto dal passarci / insieme a una ragazza. Ma / come hanno fatto ad abbattere case, distruggere quartieri?'. Al ritorno dallo sfollamento durante la guerra, a Sant'Ambrogio Olona sulla via per il Sacro Monte di Varese (buen retiro di grandi letture, da Buzzati a Vittorini e Montale: 'So di dover molto a Montale ... per il fatto che non si possono avere troppe pretese nel Novecento per la poesia come fonte di verità'), ad attirarlo è la Milano della cultura che conosce grazie ai biglietti omaggio forniti dal padre, vicesegretario comunale: il Piccolo Teatro diventa seconda casa (scriverà per la scena: Alcesti) e con Strehler frequenta il 'poeta e di poeti funzionario' Vittorio Sereni e conosce 'il coraggio delle ossessioni' di Testori: autori che gli insegnano a raccontare se stesso attraverso ciò che è intorno. La letteratura si fa vita e rilegge Manzoni (difeso contro gli 'antimanzoniani') quando torna a Porta Venezia e riscopre il Lazzaretto della peste: 'grazie al fatto di essere nato ai suoi margini credo di essermi reso conto in modo concreto, fisico, che la mia città non era solo quella che vedevo, case, strade, piazze, gente viva, ma era piena di storia, case, strade, piazze, gente, che non c'erano più. La mia città visibile era piena di storia invisibile e questa era piena di dolore, minacce, paura'. Così nelle sue poesie, fino agli Ultimi versi postumi del 2006 curati dalla compagna Patrizia Valduga, entra la peste come metafora di contagio, condanna, ingiustizia. La denuncia morale emerge anche nelle battaglie sui giornali, fin dal 1971 in molti manifesti politici e poi sul "Corriere" con interventi raccolti in un libro in uscita domani da Rizzoli (Il libro del giorno, a cura di Massimo Onofri). Sopra tutto, l'arte del dubbio: dalla notizia sulla candidatura del Nobel alla Merini ('nessuno scandalo, perché nessun premio si basa su un giudizio critico assoluto') alla vera 'tradizioen lombarda' (da Porta a Sereni e Rebora, anch'essi di Porta Venezia), alla programmazione alla Scala che gli fa dire: 'fa piacere ogni tanto essere contenti della propria città'. La vera Milano per Raboni è però sempre quella dei resti del Lazzaretto vicino a casa: 'qualche inferriata, qualche rossastro brandello di muro, al quale mi piace pensare come al vero, occulto emblema di questa città appestata, invivibile, bellissima'." (da Roberto Cicala, Appestata, invivibile, bellissima la Milano di Raboni, "La Repubblica", 15/09/'09)

Miracolo a Mantova. Numero 13


"La liquefazione dei luoghi comuni sulla lettura in Italia si è ripetuta in questo lungo fine settimana a Mantova. La notizia sarà scontata, ma non per questo meno buona. Per testimoniare il miracolo - ché di questo si tratta, e ci sono meno dubbi che su altre analoghe manifestazioni che pure raccolgono fedeli da ogni dove - chiedere alle oltre 60 mila presenze, sparse felicemente per la città. Biglietto più biglietto meno, lettore più lettore meno, spettatore più spettatore meno (conteggiate pure quello che rafforza maggiormente il vostro pregiudizio) il Festivaletteratura - che chiude oggi l'ediizone numero 13 - si conferma rassegna unica e irripetibile. E, sì, misteriosa, come conviene agli eventi non spiegabili del tutto razionalmente. Si ha un bell'elencare: ci sono sempre i soliti noti, non fa aumentare i lettori, non serve a vendere più libri, gli scrittori si va a vederli ma non li si legge, ti chiedono gli autografi a prescindere ... A parte la facilità con le quali si possono smontare queste fallaci premesse, sono le conseguenze ad essere interessanti. Le code mezz'ora prima di incontri per nulla semplici, la qualità delle presentazioni, le sorprese che arrivano da autori per nulla sospettabili: perché negare l'evidenza? E' difficile, ormai, scrivere qualcosa di originale su Mantova. Saremo dei creduloni romantici o magari avremo il salame - mantovano - a fette belle grosse sugli occhi: eppure, a costo di ripeterci, il Festivaletteratura ci appare sempre più per quello che è: una festa dei lettori e per i lettori. Quelli che si sorbiscono un viaggio da Brindisi per vedere - sì 'vedere' - Melania Mazzucco (e altroché se l'hanno letta), quelli che nella vita fanno il benzinaio ma sanno tutto di questioni mediorientali, quelli che si buttano su temi filosofici o storici o linguistici con passione, curiosità e, perché no?, sana ingoranza. Certo: viene da dire che quella di Mantova è un'altra Italia rispetto a quella alla quale siamo abituati (costretti?) a pensare. Può essere. Ma forse è smeplicemente la risposta ad una domanda di cultura che altri mezzi - la tv, i giornali, etc. - non sono più in grado di fornire. In una galleria ipotetica di istantanee di questa edizione sarebbero molti i momenti da immortalare. Buoni e meno buoni: la riuscita di un cartellone, è sempre più chiaro, dipende non solo dall'autore prescelto, ma anche da chi lo affianca, se pure c'è. Esempio: ottima l'idea, nuova, di dedicare una retrospettiva a un autore (quest'anno Amitav Ghosh), infelice quella di affidarlo alla sua traduttrice troppo preoccupata di apparire e a una lettura (di Giuseppe Cederna) troppo malriuscita per essere quella vera (ma il reading di testi in pubblico sta diventando un problema serio, se nemmeno gli attori se la sbrogliano più). E così, tra i bagni di folla di Sepùlveda, Mazzantini, De Luca e compagnia, per noi le più belle sorprese sono venute da due autrici che più 'internazional-popolari' non si può, ma che a Mantova ... ci stavano benissimo. Sophie Kinsella, magistralmente condotta per mano da un eccezionale Luca Bianchini in territori di levità e ironia ignoti ai suoi (di lei) detrattori, e Muriel Barbery (presentata ottimamente da Caterina Soffici). Che prima ammette di non spiegarsi il fantastico successo del suo Riccio , poi rivela che scrivere è come fare un sogno nel quale l'autore è tutti i protagonisti, ma che senza il contributo del lettore non si avvera. Quando poi si alza uno spettatore che dice di avere abitato realmente tutta l'infanzia nella casa che lei ha solo immaginato, al 7 di rue de Grenelle a Parigi, ecco il senso profondo del Festival. Un incontro tra autore e lettore che ha, talora, del miracoloso. Capita una volta all'anno, vero. E pazienza. Ma, altrimenti, che miracolo sarebbe?" (da Stefano Salis, Miracolo a Mantova. Numero 13, "Il Sole 24 Ore Domenica", 13/09/'09)

Stupidario della "googloteca"


"Il 1899 è stato un anno a dir poco miracoloso sul piano della produzione letteraria: tra gli altri sono usciti Raymond Chandler con una raccolta di racconti (Killer in the Rain), La condizione umana di André Malraux, Stephen King con Christine. La macchina infernale, tutti i romanzi brevi di Virginia Woolf e perfino una biografia di Bob Dylan firmata da Robert Shelton. 1899: non è un refuso, avete letto giusto, anche se forse le date non vi quadrano, tenuto conto che all’epoca la Woolf aveva diciassette anni, Chandler undici, Malraux non era stato neppure concepito e King doveva ancora aspettare quasi mezzo secolo prima di vedere la luce. Ma fidatevi: lo dice Google, e quindi deve per forza essere vero. Da quando autori ed editori americani gli hanno dato il disco verde per la digitalizzazione di tutti i libri fuori commercio, il gigante dei motori di ricerca si avvia a diventare la più grande biblioteca virtuale del mondo, tra i mugugni degli eruditi e l’esultanza dei pasdaràn della cyberdemocrazia. Per portarsi avanti, un linguista di Berkeley, Geoffrey Nunberg, ha fatto un esperimento: è andato su Google Books e ha provato a formulare qualche domandina facile facile. Per esempio: in che anno è stato pubblicato Il falò delle vanità di Tom Wolfe? Risposta fulminante: 1888. Proviamo allora con Charles Dickens, che è un classico. Se digiti il suo nome, e restringi l’indagine a prima del 1812, ottieni ben 182 citazioni, la maggior parte delle quali riconducibili a testi dello scrittore, nato per l’appunto nel 1812. Accidenti, va be’ che era una penna fertile, ma già nel grembo di sua madre? Non ci si deve stupire, considerato che la parola «Internet» nei libri pubblicati prima del 1950, risulta presente ben 527 volte. Poi ci sono gli errori di classificazione. Un’edizione francese di Amleto e una versione giapponese di Madame Bovary sono finite chissà come nella categoria Antiquariato e collezionismo, un Moby Dick è schedato alla voce Computer, e varie edizioni di Jane Eyre (il romanzo di Jane Austen) sono rubricate come Storia, Governanti, Storie d’amore o Architettura.
Da cosa derivano tutti questi svarioni? I responsabili di Google scaricano la colpa su editori e bibliotecari, ma l’alibi non convince Nunberg. La verità è che i libri non sono semplici sequenze di parole. Immagazzinando meccanicamente milioni di testi, le cappellate si moltiplicano in modo esponenziale: un vero disastro per chi fa ricerca. Studenti dell’era Google, pirati dell’online, teppisti del copia-incolla, state in campana. Prima di consegnare la tesi, fate un salto in biblioteca, e controllate sui libri veri. Quelli di carta che si usavano una volta, avete presente?" (da Riccardo Chiaberge, Stupidario della 'googloteca', "Il Sole 24 Ore Domenica", 13/09/'09)

Arundhati Roy: "India, democrazia ma non per tutti"


"Sette anni fa venne condannata per «oltraggio». Aveva criticato, in un suo vibrante scritto che ora si può leggere in Quando arrivano le cavallette (Guanda) una sentenza dell’Alta corte di giustizia indiana favorevole alla costruzione di una grande diga sul fiume Narmada. «In fondo sono rimasta in carcere per un solo giorno, è stata una pena simbolica - racconta Arundhati Roy -. Ma il problema non è quel che accade a me, persona nota. Il problema è che ogni giorno in India viene uccisa o sparisce della gente». Lei, infatti, è persona talmente nota che una volta, dopo l’attacco terrorista a Bombay, venne chiamata direttamente in causa da un anchorman, nel corso di un’intervista con un funzionario della polizia, che sparò il suo «speriamo ci stia guardando» con tono niente affatto amichevole. Ha scritto un romanzo di enorme successo, Il dio delle piccole cose, nel ’96. A Londra vinse il Booker Prize, e fu tradotto in tutto il mondo. Da allora, non una riga di fiction. È diventata un’eroina no-global. E anche un personaggio ingombrante. Oggi (Teatro Carignano, alle 21) inaugura insieme con lo scrittore-regista inglese John Berger la stagione del Circolo dei Lettori, in una serata che guarda anche all’imminente edizione di Torino Spiritualità. Parlerete del raccontare. Un’arte che sembra aver rinnegato. «Non ho più messo mano a romanzi perché nutro un certa ostilità all’idea di carriera. Non mi voglio pensare come una scrittrice che deve ogni volta pubblicare un nuovo libro. Però ritengo che molti dei miei saggi rappresentino un modo specifico di raccontare storie difficili. Quello sulla diga, per esempio: è stata una grande sfida, che andava oltre il ruolo normalmente attribuito a uno scrittore. In India c’è una realtà così urgente, una necessità di mettersi per strada, nel cuore della politica e dei problemi basilari della popolazione, che è davvero difficile rifiutarsi». Il suo cambio di marcia verso un aperto impegno è imposto dalla situazione? Lo ha sentito come un dovere? «Non esageriamo. Non ho il senso del dovere». Però ha quello dell’impegno. «Le faccio un esempio. Nel nuovo libro c’è un saggio sull’attacco suicida al parlamento di New Delhi, il 13 dicembre 2001, che fece 14 vittime. Sapevo che era un’assoluta tragedia, e la sola cosa che ho pensato è stata: se non ne scrivo, sicuramente me ne pentirò. Funziona così. Per me è impossibile andare nel Kashmir e non scriverne. Ma ci vado soprattutto per capire la natura umana. Con quel che accade sarebbe impossibile non andare». In Kashmir si consuma una lotta interminabile tra India e Pakistan, con infiltrazioni terroristiche, scontri religiosi, rivendicazioni indipendentiste. «E se uno non prende posizione viene accusato di tradimento. Certo, la minaccia del Pakistan in quell’area è reale. Ma è altrettanto reale quella dell’India: è in atto una vera occupazione militare, con un bilancio atroce; ci sono stati almeno diecimila scomparsi, e decine di migliaia di torturati. E in India non il minimo accenno. Silenzio. Non se ne parla». L’immagine che dà del suo Paese contrasta con quella che se ne ha generalmente: una grande democrazia, una grande crescita economica, una superpotenza meno inquietante di quella cinese. «Superpower-Superpoor, superpotenza superpovera. L’India è una democrazia solo per qualcuno, diciamo per la classe media; e questo è il vero problema, che nasconde i contadini ridotti alla disperazione e al suicidio, la povertà, la distruzione dell’ambiente». Mali che lei denuncia apertamente. Se fosse cinese, invece ...
«Lo so, non potrei. Ma la contrapposizione non ci porta da nessuna parte. Ci sono aspetti positivi in entrambi i Paesi, accanto ad altri, troppi, molto negativi. Anche da noi c’è una legge sulla sicurezza che, di fatto, criminalizza ogni dissenso». L’India è uno Stato repressivo? «Peggio. Uno Stato repressivo con spezzoni di fascismo. E che sta diventando sempre più uno Stato di polizia. Non si riesce a dare cibo e acqua sufficienti alla popolazione, ma ora tutti verranno forniti di una carta d’identità elettronica. E quelli che non l’avranno cesseranno di esistere». Nel suo libro lei critica sia il Partito induista sconfitto alle ultime elezioni, sia il Partito del Congresso tornato al potere. Quale alternativa propone? «Guardi che il Partito del Congresso, data l’enorme frammentazione politica, ha vinto con il 10 per cento dei voti. In ogni caso, non credo alle alternative globali. Sono altrettanto violente. Credo però che ogni nuova diga abbia un’alternativa, che ci siano possibilità puntuali, situazione per situazione, contro il crescere della violenza e le soluzioni militari; che ci siano diritti di base nel cui ambito lavorare. È importante essere specifici». Lei insiste sulla specificità. Proviamo a definire anche la spiritualità? «Volentieri: capire che ognuno di noi è parte di una storia. Rispettare tutto ciò che ci circonda. Se rimuovi l’essere umano, non rimane niente»." (da Mario Baudino, India, democrazia ma non per tutti, "La Stampa", 15/09/'09)