sabato 28 febbraio 2009

La legge e la sua giustizia di Gustavo Zagrebelsky


"Con la sua prosa elegante e coinvolgente, con la mai placata volontà di ricerca che si nutre della virtù del dubbio, nel suo ultimo saggio su La legge e la sua giustizia (Il Mulino), Gustavo Zagrebelsky ci prende per mano e ci accompagna, in una riflessione sempre più profonda, a rivisitare le domande di sempre: cos’è la giustizia? in che rapporto sta con la legge? Di cosa si sostanzia? Come cercare di avvicinarvisi? Lasciandoci, dopo averci arricchito con le sue risposte, con un nuovo interrogativo, profondo come una voragine. Da sempre il diritto ha due volti: quello formale (la forza che diventa legge scritta) e quello sostanziale (l'equità, i mores, i valori, variabili nel tempo, intorno ai quali un agglomerato di persone diventa società). Da sempre il rendere giustizia è in bilico tra queste due sponde. Grandi delitti sono stati commessi, nel corso della Storia, sbandando verso una di esse: sia invocando la sovranità della legge, sia invocando, oltre la sua lettera, la giustizia sostanziale, i valori del popolo. 'La legge è legge, l'abbiamo solo applicata', si giustificavano i criminali nazisti processati a Norimberga. 'Si deve punire seguendo il sano sentimento del popolo, oltre il pregiudizio borghese del nullum crimen sine lege', proclamavano i giudici della Russia staliniana che ordinavano la fucilazione della madre colpevole di aver raccolto il cadavere del figlio ribelle. Dunque, bisogna stare all'erta: il diritto come forma può diventare strumento del più forte, che non persuade ma prevarica sul debole; ma anche i valori (le 'leggi non scritte' invocate da Antigone) a volte generano mostri: quando, per essere realizzati, ci chiedono di non badare alle regole. In una lunga traversata, che dalla Grecia classica ci porta sino ad oggi, Zagrebelsky ci racconta, con una lettura coltissima - che è impossibile condensare in poche righe - le diverse idee di giustizia che hanno segnato la storia dell’umanità. Dal nómos sovrano di Pindaro, che 'traduce in giustizia la violenza massima', al 'governo delle leggi' dello Stato di diritto, alla concezione della legge come strumento di garanzia contro gli abusi di potere dello Stato e dunque alle moderne Costituzioni, 'cataloghi di diritti inviolabili'. Una storia di certezze granitiche che diventano dubbi: dal dialogo tra il giovane Alcibiade e Pericle ('Dimmi, Pericle, mi sapresti dire che cosa è la legge?') alle incertezze del costituzionalismo universale della civiltà globalizzata, che si allarga dai territori alla terra, evocando i principi eterni delle libertà individuali, della pace e della dignità della persona. Con una prima conclusione: la divinizzazione della volontà generale cristallizzata nella 'forza di legge' - concetto che ha servito, di volta in volta, le monarchie assolute, i giacobini della Rivoluzione, la borghesia liberale dell’Ottocento, le riforme del primo Novecento ed infine le dittature di destra e di sinistra che ne seguirono - è tramontata con le democrazie costituzionali del secondo dopoguerra. In cui la Costituzione, il 'lato materiale' del diritto e della sua giustezza, pone le basi dello stare insieme ma organizza anche limiti e cautele alle leggi espressione della forza delle maggioranze. Le tradizioni, i valori che costituiscono il tessuto connettivo di un popolo sono il patrimonio comune: di fronte al quale il legislatore deve sapersi fermare e che l'interprete della legge deve riconoscere e portare alla luce. Da qui il nuovo ruolo del giudice: non solo esperto di leggi ma di diritti; custode della loro complessità; capace di rispettare la forma della legge e, applicandola, di nutrirla e farla vivere dei principi costituzionali, del modo in cui questi sono vissuti nel presente. Un compito che esige duttilità, cultura, equilibrio. Anche perché i principi costituzionali ci spingono in una direzione senza specificare come percorrerla. Ed ecco dunque l'interrogativo che Zagrebelsky ci lascia davanti. Alla domanda di sempre (quale giustizia?) se ne aggiunge un'altra: quali magistrati? Se l'ordinamento giuridico non è un orario ferroviario e i giudici non sono impiegati chiamati ad azionare scambi e semafori nei tempi prestabiliti, come selezionare questi giudici, come formarli, come renderli responsabili? Basta, a legittimarli, la loro preparazione tecnico-giuridica? Se essi sono i 'custodi delle promesse costituzionali', chi lo custodisce? Come coniugarne indipendenza e responsabilità? Come collegarli al principio della sovranità popolare quando il 'popolo sovrano', che fa le leggi, non è altri che la maggioranza degli elettori? Domande spesso strumentalizzate per fini loschi. Ma che ancora attendono risposte. Anche su questo, il libro di Zagrebelsky non ci rassicura. E', piuttosto, 'l'amico ricco di esperienza' che ci costringe a pensare, amplia le prospettive, turba le certezze, inquieta le nostre riflessioni." (da Paolo Borgna, Bisogna ascoltare la Costituzione, non la vox populi, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/02/'09)

venerdì 27 febbraio 2009

La collezionista di storie di Randa Jarrar


"Nidali vorrebbe tanto vivere a Boston e girare con la chiave di casa legata al collo, come fanno i bambini da quelle parti. Del resto, mica per niente lei in America c'è nata. Però abita in Kuwait con il fratellino, la mamma pianista e il papà architetto. La mamma pianista è molto simpatica, le manca la musica visto che fa la casalinga. Baba, il papà, è un po' frustrato e non di rado pensa che le mani siano un buon modo per educare. Nidali è talmente brava a scuola che finisce nella 1X, cioè la famigerata 'classe dei secchioni': 'alla fine dell'anno avevo accumulato ventitré giorni di punizione, preso otto in tutte le materie perché studiavo dalla mattina alla sera, superato brillantemente gli esami, scritto un libriccino sui giorni di punizione, che autopubblicai grazie alla spillatrice di Baba e alla carta di Mama, e baciato Fakhr tre volte e mezzo'. Il mondo di Nidali, che ha una mamma greco egiziana e un papà palestinese, è abbastanza vario: ha amici islamici e cristiani, curdi e giapponesi, irlandesi con le lentiggini. Poi però un giorno Saddam invade il Kuwait e per lei, la sua famiglia e tanti altri, cominciano le disavventure. La famiglia di Nidali a un certo punto scappa, attraversa il deserto in macchina, arriva fino in Giordania e poi in Egitto. Nidali è un po’ frastornata, ma lo spirito di adattamento degli adolescenti, in particolare quelli svegli come lei, non va mai sottovalutato. Dopo svariate peripezie, Nidali approda in America. Ma su una casa mobile, che ci vorrà del tempo perché metta radici. La collezionista di storie (ma perché non conservare il suggestivo titolo originale: A Map of Home?) è il primo romanzo di Randa Jarrar, una giovane autrice la cui parabola di vita non è molto diversa da quella della sua protagonista: nata a Chicago nel 1978 da padre palestinese e madre greco-egiziana, dopo soli due mesi si è trasferita con la famiglia in Kuwait, fuggita in Egitto nel 1990, dopo l’invasione irachena, poi tornata negli USA , dove Randa si è laureata in Studi mediorientali. Oltre a scrivere, traduce dall'arabo. Che è certamente un aspetto significativo e non un puro dettaglio professionale. Perché dopo una partenza un po' di maniera, il libro tiene in virtù di una sua coerenza e originalità. Invece di cadere nel folklore di una narrativa etnica sulla cresta dell'onda commerciale (chissà poi quanto ancora durerà), Jarrar sceglie una strada meno convenzionale. Scrive in angloamericano, e non solo da un punto di vista strettamente linguistico. Sono piuttosto i suoi codici espressivi, i toni, il pensiero del pubblico a cui si rivolge, ad animare una storia lieve, ironica. Priva di pretese d'ordine sociale, e proprio per questo accattivante sul piano narrativo. Jarrar non è mai compiaciuta, mai retorica, proprio in virtù di questa scelta di meticciato 'spinto', anzi di osmosi con la cultura occidentale in cui è cresciuta. Il che non significa che sia un romanzo insulso, di pura divagazione, tutt'altro. Ad esempio le pagine sulla visita della famiglia ai nonni palestinesi, con gli inconvenienti di prammatica ai controlli di confine sul ponte del Giordano, sono divertenti e profonde, nella loro verità. Estranea a moventi politici, a tentazioni di colore che troppo spesso scadono nell'eccesso, la narrativa 'etnica' risulta dunque più efficace quando non teme di meticciare i propri codici. Il racconto di Randa Jarrar è autentico, in questo senso. Certo, il dato autobiografico non fatica a diventare romanzo quando, come nel suo caso, ha già tanto da raccontare. Ma c'è modo e modo di mettere la propria vita sulla pagina, e lei l'ha fatto con quell'intelligenza di cui basta un tocco per aggiustare le cose, e convincere il lettore." (da Elena Loewenthal, Saddam cambia la vita di Nidali, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/02/'09)

In principio era Darwin di Piergiorgio Odifreddi


"Di Darwin e del darwinismo si è parlato molto, di recente, a voce e per iscritto, e più ancora se ne parlerà nell'anno che è appena cominciato e che rappresenta il duecentesimo anniversario della nascita di Darwin e segna i centocinquant'anni dalla pubblicazione della sua opera principale, L'origine delle specie. Ne sentiremo di cotte e di crude, a proposito soprattutto delle implicazioni filosofiche e sociali della dottrina dell'evoluzione, ma c'è da credere che pochi ne esporranno esplicitamente i punti essenziali. Il fatto è che tutti credono di sapere tutto sull'evoluzione, esattamente come tutti credono di sapere tutto sulla mente. È da salutare quindi con grande favore un'operetta informata ma semplice e lineare come quella di Piergiorgio Odifreddi, intitolata In principio era Darwin (Longanesi). Il nostro autore smette per una volta i panni del polemista a tutti i costi e del fustigatore di certe posizioni ideologiche per darci un'introduzione alla materia che è nello stesso tempo un ritratto storico, essenziale ma esauriente, di Darwin e della sua opera. Basandosi spesso su citazioni letterali delle sue opere, che pochi hanno letto o leggono, Odifreddi dipana da par suo un trattatello del 'tutto- Darwin' che riuscirà molto utile a chi si vuole fare una prima infarinatura sull'argomento e a chi vuole assorbirne i punti essenziali senza perdersi in un mare di dettagli e di complicazioni. In particolare mi ha colpito il fatto che lui, esperto di matematica e di logica, e presumibilmente del tutto digiuno di biologia fino a qualche tempo fa, sia riuscito con il solo uso della ragione a impadronirsi dei nodi essenziali dell'evoluzionismo, molto meglio a mio giudizio di tanti miei colleghi biologi. Potenza della passione, della dedizione e della chiarezza mentale, nonché grande rivincita sull'abitudinarietà e sulla vuota presunzione di chi pensa di sapere tutto solo perché pratica una certa professione. Di che cosa parla questo libretto? Di Darwin, della sua vita, del suo pensiero — più precisamente dell'evoluzione del suo pensiero —, della sua opera e degli sviluppi e degli esiti della stessa fino quasi ai nostri giorni. Come forse meglio non si poteva, considerando anche le dimensioni del testo. Negli ultimi anni sono uscite molte biografie aggiornate di Darwin e il nostro autore se ne avvale ampiamente per comporre un vivido ritratto umano e intellettuale del fondatore dell'evoluzionismo, con i suoi drammi umani e la sua inesausta ricerca della verità, una verità che doveva travalicare i confini della biologia per investire questioni fondamentali come l'origine e l'evoluzione dell'uomo, il più contraddittorio e paradossale dei viventi, con un piede nell'animalità e la testa tra le stelle, carico di spinte istintuali come qualsiasi altro mammifero, ma dotato di una corteccia cerebrale ipersviluppata che deve sindacare e mettere bocca su tutto, che mangia con le posate, si sposa in bianco, suona e canta per tutto il pianeta e scrive libri, su di sé, sull'essere e sul nulla. È opinione di Odifreddi, ma anche mia, che sapere da dove siamo venuti sia eccezionalmente importante, oltre che interessante, e non per farci mortificare a causa delle nostre umili e ferine origini, ma per misurare il cammino percorso — dalla evoluzione biologica prima e da quella culturale poi — così da rendercene doverosamente edotti e legittimamente orgogliosi. Ricordo una tenera fiaba delle elementari che ritraeva un dialogo fra un pennacchio di fumo, denso e nero, e una bianca nuvoletta. Il fumo vantava le sue nobilissime origini, essendo figlio del possente fuoco, mentre la nuvola non era che la figlia dell'umile acqua. 'Ma quale sarà il nostro destino?', chiedeva la nuvola. 'Tu ti disperderai annerendo ciò che incontri, mentre io potrò a suo tempo innaffiare e rendere fertili i campi'. Non è da dove veniamo che conta, concludeva la morale della favola, ma dove andiamo. E che cosa ci aspetta. Forse noi siamo come la nuvoletta: partiti da umilissime origini siamo in viaggio verso un luminoso avvenire. E questo nessuno ce lo potrà togliere, qualunque cosa scopriamo a proposito del nostro passato." (da Edoardo Boncinelli, Un saggio di Piergiorgio Odifreddi. Il pensiero di Darwin: origini e evoluzione, "Corriere della Sera", 27/02/'09)

martedì 24 febbraio 2009

Lio Lionni, 'Immaginario esemplare'


"Cornelio è un coccodrillo tutto speciale. Riesce a camminare su due zampe e può vedere cose che gli altri coccodrilli non hanno mai visto. Poi sa stare a testa in giù. Gli altri coccodrilli lo denigrano. Embè? gli chiedono seccati. Ma, quando se ne va infuriato, Cornelio osserva, con la coda dell'occhio, che i coccodrilli si esercitano a far le cose che lui sa fare ... E che dire di Piccolo blu e piccolo giallo? Due puntini di colore, amici per la pelle. Tanto amici da abbracciarsi felici e ... diventare verdi! Sono due tra i tanti protagonisti delle favole inventate da Leo Lionni, uno di quei personaggi che hanno fatto la storia del libro per bambini e ragazzi. Molto opportunamente, quelli (sempre più bravi) del festival Minimondi di Parma, nona edizione in corso, gli hanno dedicato una bella mostra, intitolata Immaginario esemplare. Lionni (1910-1999), cittadino del mondo, è stato grafico, art director, pittore e i suoi lavori - riediti da Babalibri -, come sanno Rosellina Archinto o Roberto Denti, hanno cambiato il modo di percepire questa tipologia di libro. Minimondi è affidato a una libraia (Silvia Barbagallo della Fiaccadori), come dalle libraie di Tuttestorie a Cagliari ha preso vita l'omonimo festival (a ottobre) e La libreria dei ragazzi di Roberto Denti è tra gli organizzatori di Quantestorie, il festival milanese che terrà la quinta edizione a Palazzo Litta dal 2 al 9 marzo. Non sono casi. I librai sono una risorsa straordinaria nella diffusione della cultura e, poiché vedono da vicino il cliente finale, nella 'costruzione' stessa della domanda. Perciò vano sempre più difesi e, quando riescono a essere così brillanti e inventivi, incoraggiati. La Scuola Librai Mauri, dal prossimo 23 febbraio, attiva una serie di corsi monografici per perfezionarli, mentre a Orvieto sono appena stati scelti gli allievi del terzo corso. Se poi volete sapere di quale perfida intelligenza può essere dotato un libraio dedicate venti minuti al raccontino di Roald Dahl (un altro che di libri per bambini se ne intendeva ...), Il libraio che imbrogliò l'Inghilterra (The Bookseller). Qui si tratta di un antiquario, è vero, e il cinismo abbonda. Ma, ogni tanto, ci vuole anche quello." (da S. Sa., Che festival, ragazzi!, "Il Sole 24 Ore Domenica", 22/02/'09)

lunedì 23 febbraio 2009

Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori. Da Dante a Pasolini di Giovanni Ragone


"Quanto l'editoria fosse faccenda complicata, Alessandro Manzoni lo seppe a proprie spese. E ben presto. Ma sicuramente capì anche - lui che aveva scritto, con grandi rimaneggiamenti, investendoci del suo, perdendoci ma scommettendo su se stesso, il grande bestseller italiano del primo Ottocento - come l'attività di produrre libri in grande quantità, per un pubblico che poteva cominciare a permetterseli, non fosse più roba da tipografi, come era stato per i tre secoli precedenti ma da editori autentici. Già: la sottoscrizione per i suoi Promessi Sposi (la versione 'quarantana' che siamo abituati a leggere) era andata molto male. L'opera in 118 dispense, al prezzo complessivo di 37,80 lire da rilegare in un volume di 864 pagine a fine raccolta, non 'sfonda'. I sottoscrittori sono solo 4600 e, delle 80 mila lire che ha anticipato, lo scrittore ne recupera forse la metà. Ha un concorrente inaffrontabile, col quale combatterà tutta la vita: la pirateria. Pare che delle precedenti edizioni le copie illegali vendute andassero dalle 60 mila alle 300 mila. Lo stesso Manzoni se ne lamentava in una lettera: 'Io non ho avuto che la sessantesima parte dei compratori!'. Ma anche gli editori, ai quali in futuro si affida, non sono da meno. Con Felice Le Monnier che peraltro gli pubblica le tragedie, va in causa, per un'altra edizione pirata del romanzo. Il verdetto impiegherà 16 anni ad arrivare, nel 1861, con l'Italia unita (ma già alle prese con la giustizia lenta), e Manzoni otterrà 34 mila lire. In quegli anni, dunque, la tipografia è sostituita dall'editoria industriale. E sulla scena, ormai, incombe il vero dominatore delle classifiche di fine secolo Edmondo De Amicis, che Manzoni lo ha conosciuto di sfuggita a Firenze nel 1866. De Amicis è furbo e sa di avere, dal momento in cui lo idea, un libro che andrà fortissimo. Su lui ha puntato sciur Emili Treves, il più grande editore dell'epoca. I due iniziano una storia di stoccate, lettere, ripicche e complicità che li porterà al caso editoriale del secolo. Treves sa come si fa l'editore: nelle sue riviste e in altre fa circolare il nome del libro 'che tutti gli italiani devono leggere': Cuore. L'attesa cresce, De Amicis ritarda e Treves pungola; poi la consegna, anche se ci sono problemi di ... soldi. Nel 1878 il battage è al massimo, ma il libro arriverà nella forma definitiva alla pubblicazione nel 1886! Ma è il botto: 18 mila copie in 13 giorni, 41 mila in due mesi, e su su fino al milione di copie vendute nel 1923, oltre 400 edizioni. Queste notizie - e non sono che una goccia nell'oceano di informazioni - le traiamo dallo studio originale, notevole e interessantissimo di Giovanni Ragone, Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori. Da Dante a Pasolini (Laterza). Si tratta, davvero, di un libro che non c'era. E bisognava farlo. Una cavalcata nella nostra storia letteraria, ma soprattutto editoriale. Ci sono, per esempio, Dante, il Canzoniere (vendutissimo per secoli ...), il Morgante del Pulci (che tutti a Firenze conoscevano a memoria), il Furioso e le sue edizioni, l'Ortis foscoliano sventurato, piratato e manomesso, l'incredibile strategia di automarketing di D'Annunzio per Il Piacere (con lo zampino sapiente, anche qui, di Treves), la storia di Gobetti, le vicissitudini con la censura fascista della raccolta Americana di Vittorini-Bompiani, per concludere con due classici contemporanei e maledetti: PPP e Luciano Bianciardi. Ragone - e i suoi giovani collaboratori - hanno fatto una fatica improba e meritoria. Intanto per raccontare con verve queste vicende libresche (e ci sono riusciti benissimo: il saggio si fa leggere con spigliatezza anche nelle parti più tecniche), poi raccogliere e selezionare un materiale enorme ma noto solo agli studiosi. E infine per trattenersi sempre dal 'giudicare' i libri - visto che già li ha giudicati la storia: qui si parla di classici e nessuno può negarlo -, ma osservarli da un punto di vista insolito: quello della 'macchina' editoriale. E per questo stride la conclusione pessimista e forse un po' di maniera del volume: detto di Bianciardi e della sua lotta contro il sistema cultural-editoriale, Ragone scrive: 'Ma il nuovo che avanza è fatto di grandi gruppi e di bestseller per lo più comprati sul mercato internazionale. Le vicende dei grandi scrittori e dei grandi editori del Novecento, fra loro intrecciate, stanno per concludersi'. Ma perché? Se c'è una cosa che questo ottimo libro dimostra è che il successo ha semmai contribuito, per i classici, alla creazione del loro status. Di certo non ha fatto male. Anzi: forse - ma questo andrebbe verificato e ce lo dirà solo il tempo, ma gettiamo il sasso ... - potremmo essere in un'epoca pronta a rovesciare il paradigma. Ho il sospetto che, dopo decenni in cui si è entrati nel canone per spinta dei critici e delle èlite intellettuali - e ci si poteva permettere di essere grandi scrittori e worst seller (come nota in un acuto articolo sull'ultimo numero di "Belfagor" Andrea Kerbaker) -, forse i rapporti sono ora invertiti. Tutto sommato l'equazione grande vendita=dubbio gusto di massa, come anche suggerisce Enzo Marigonda nel suo intervento sull'ultimo Tirature '09 (uno dei migliori numeri degli ultimi anni; Il Saggiatore), è rassicurante ma non sufficiente. A parità di qualità artistica, magari i grandi numeri commerciali servono. Shakespeare, Dante, Petrarca, Ariosto, Manzoni, etc. sono stati a loro tempo, popolarissimi. E se i classici del futuro fossero, poniamo, John Le Carré, Stephen King o J. K. Rowling? E se della letteratura italiana degli ultimi trent'anni l'unico che venisse studiato in accademia fra venti fosse ancora il solo Nome della rosa di Umberto Eco? O Camilleri, (demone) Meridiano già in vita?" (da Stefano Salis, Dove ci ha portati Cuore, "Il Sole 24 Ore Domenica", 22/02/'09)

sabato 21 febbraio 2009

L’angelo custode compie 100 anni (1909-2009)


"«Con il tempo tutto passa, ma fino a quando ci saranno dei sopravvissuti il ricordo continuerà ad esistere». Anna Frank la chiamava la sua 'protettrice', poi è stata ribattezzata la 'guardiana della memoria'. Miep Gies era la giovane donna dal viso dolce che dal luglio 1942 all´agosto 1944 ha nascosto Anna Frank e la sua famiglia, l´angelo che li ha tenuti in contatto con il mondo e ha portato loro le provviste e gli oggetti capaci di rendere la vita meno soffocante. Era lei che comprava la preziosa carta con cui Anna ha scritto il suo diario, che la ascoltava e rispondeva alle sue mille domande. Domenica scorsa Miep ha compiuto 100 anni ed è tornata a parlare al mondo. Via e-mail ha concesso a Repubblica qualche domanda in bilico tra passato e presente. Ricorda Anna - 'era il sole di quella casa, il motore che ha unito tutti' - e parla di oggi, del negazionismo, delle polemiche sui lefebvriani: 'Le parole e i precetti della Chiesa cattolica mi sono indifferenti. Posso però dire di non essere d´accordo con tutte queste cose'. Poi si tuffa nel tempo e parte da dove tutto è cominciato. Ci porta ad Amsterdam, nel 1933, quando è diventata la segretaria di Otto Frank, proprietario del magazzino al 263 della Prinsengracht. Una vita dopotutto felice, per lei che a soli undici anni era scappata dalla povertà post-bellica dell´Austria. Ma poi è arrivata una nuova guerra, i nazisti e la memoria si tinge di tragedia. C´è quel giorno del 1942 in cui Otto Frank la chiamò: 'Miep, ti devo dire una cosa importante, un grande segreto. Ci stiamo preparando a nasconderci, qui, in questa casa: ci vuoi aiutare?'. Il suo 'sì' fu dettato da un sentimento naturale, spontaneo e noncurante dei rischi. Poi arriva il 9 luglio, il giorno della fuga. E´ lei a portare nel nascondiglio Margot, la sorella maggiore di Anna finita nelle liste dei nazisti. Ricorda: 'Margot e la madre erano sotto shock, stavano sedute lì con lo sguardo perso nel vuoto. Era orribile. Anna, invece, era allegra e contenta come sempre'. Eppure la vita era diventata una prigionia. In che misura lo capì tempo dopo, quando venne invitata a trascorrere una notte nel nascondiglio: 'Non ho chiuso occhio: solo allora ho capito davvero cosa volesse dire nascondersi. Eri schiacciato da una forte pressione, dalla paura. Mi sentivo incatenata e ho pensato: domani sarò di nuovo libera'. Quella notte le insegnò più di due anni in cui tutte mattine andava a raccogliere la lista della spesa dei Frank: «Anna era sempre la prima a dire: 'Hello Miep, cosa c´è di nuovo?'. Era così, era normale ed impulsiva. Ma io sentivo che loro dipendevano da noi, che mi aspettavano con ansia per parlare, per avere notizie. Lo trovavo terribile. Il fatto che fossero docili mi faceva male, era straziante». Fu invece di pomeriggio che capì il legame tra Anna e la scrittura: era salita nel nascondiglio fuori orario e trovò la bambina che scriveva 'con grande concentrazione'. Quando la vide, Anna le rivolse 'uno sguardo ostile' e chiuse il diario sbattendolo. Lei rimase sconvolta. 'Quella era la Anna che scriveva'. Poi arrivò la tragedia, il 4 agosto 1944. Miep era in ufficio quando la porta si aprì ed entrò un uomo armato. Pensò: 'Ci siamo'. Seguirono densi minuti di angoscia. Lei fece scappare i complici e rimase da sola: 'Avevo sentito qualcuno parlare in tedesco, con un accento che conoscevo. Quando entrò mi alzai e dissi: «Lei è di Vienna, anch´io lo sono». L´uomo rimase a bocca aperta. Gli diedi i documenti e lui sbraitò: «Non ti vergogni? Stai aiutando della spazzatura ebrea! Sei una traditrice e dovresti morire». Rimasi in silenzio e lui a muso duro disse: «Per me puoi rimanere, ma se scappi prenderemo tuo marito». Desolata sentì i passi dei Frank che scendevano le scale. In quelle ore fu lei a trovare il diario di Anna e a custodirlo. Glielo voleva restituire di persona, ma la piccola non tornò: sette mesi dopo lei e Margot morirono a Bergen-Belsen. Così lo diede a Otto Frank, l´unico sopravvissuto della famiglia. Lui lo fece pubblicare ma per anni Miep non lo volle leggere. Poi trovò il coraggio: 'Una sensazione bellissima si impossessò di me. Questa era l´Anna che conoscevo, la sentivo di nuovo vicina: quel diario è Anna'. Fu quello il momento in cui capì che la sua vita sarebbe stata dedicata alla memoria." (da Alberto D’Argenio, L’angelo custode compie 100 anni, "La Repubblica", 21/02/'09)

Anne Frank guardian celebrates turning 100 (Telegraph.co.uk)

venerdì 20 febbraio 2009

Sassoon: 'Leggete, leggete qualcosa resterà'


"A Milano, al convegno in onore dei sessant’anni della Bur, lo storico inglese Donald Sassoon ha parlato di 'Lettura a buon mercato: la nascita delle edizioni economiche nell’Europa dell’Ottocento', e ne ha parlato con tutta la sterminata cognizione di causa accumulata per scrivere il suo mastodontico libro La cultura degli europei (Rizzoli). La tesi di Sassoon, a proposito di offerte culturali a buon mercato - non solo di libri -, è enunciata nelle primissime pagine del volume: 'Un aristocratico dell’Ottocento era culturalmente svantaggiato rispetto a una comune commessa del 2000'. Ci crede davvero, professore? Se fosse vero, per le commesse e non solo per le commesse, la situazione del nostro Paese - politica, intellettuale, sociale - non sarebbe meno calamitosa? 'Intanto, quando parlo di cultura, non parlo necessariamente di cultura alta, ma di consumo culturale ...'. Ovvero? 'La commessa ha accesso a mercati culturali immensi. Ha un’infinità di radio, di canali televisivi, può comprare libri che costano pochissimo, scaricare ore di musica. L’aristocratico dell’Ottocento se la sognava, quest’abbondanza'. Ma per essere culturalmente avvantaggiati non bisogna avere strumenti di discernimento? 'Ah! Torniamo alla cultura alta e bassa ... È vero: la commessa non ha avuto un’educazione che la porta a Mozart, ma è altrettanto vero che Mozart è più raggiungibile. Mentre l’aristocratico sudava sette camicie per poterlo ascoltare'. Ma se manca l’educazione, tutto questo vantaggio è davvero un vantaggio? 'Certo che lo è. L’equivalente ottocentesco della nostra commessa era analfabeta. Non sapeva neppure dove fosse la Francia'. Gli americani non lo sanno neanche adesso. 'È vero (ride). Ma, tornando al punto: non solo leggere, che so, Dan Brown è meglio di non saper leggere, ma anche chi legge, poniamo, Tolstoj, fa parte di una compagnia più vasta di quella d’un tempo. Oggi Tolstoj è più letto di cento anni fa. Dunque c’è un progresso'. Anche la robaccia è enormemente più letta, più prodotta, più 'consumata'. 'Vero, ma leggere è sempre meglio di non leggere'. In Italia, comunque, si legge infinitamente meno degli altri paesi europei. E si guarda una televisione infima. 'La televisione è peggiorata dappertutto, perché dappertutto si sono moltiplicati i programmi, dunque anche quelli che lei definisce infimi. L’importante è che l’offerta resti molteplice. Quando alla Bbc hanno mandato in onda l’integrale dell’Anello del Nibelungo in 14 puntate, l’audience è stata di un milione di persone a puntata. Di questo milione almeno qualcuno avrà scoperto Wagner per merito della tv'. Tornando alla lettura. Perché in Italia si legge così poco? 'È un bel problema. È un Paese con un tenore di vita analogo a quello di Francia e Inghilterra, con scuole analogamente buone, forse migliori di quelle inglesi. Eppure gli italiani non leggono. Non ho trovato una spiegazione obbiettiva. Un’idea ce l’ho, però ...'. Ed è? 'Ecco, in Inghilterrra, in Francia, l’abitudine di leggere comincia prima dell’avvento della radio e della televisione. Nel 1890 il Daily Mail vendeva all’incirca un milione di copie, e altrettanto, dall’altra parte della Manica, il Petit Parisien. A quell’epoca in Italia l’analfabetismo era più diffuso che negli altri due Paesi, e poi, quando è arrivata l’istruzione di massa, questa ha coinciso con l’arrivo di radio e tv, un modo di intrettenimento più potente della lettura'. [...]." (da Maria Giulia Minetti, Sassoon: 'Leggete, leggete qualcosa resterà', "La Stampa", 19/02/'09)

Arundhati Roy: 'Giustizia o guerracivile: la mia India a un bivio'


"'Il romanzo e il saggio sono come la sinistra e la destra del mio corpo. E io sto provando a essere ambidestra'. Quasi un tormento per Arundhati Roy che ha messo il rapporto tra potere e impotenza al centro di ogni forma di scrittura. Il dio delle piccole cose, bestseller internazionale e Booker Prize nel 1997 da lei definito 'un romanzo politico', è rimasto la sua prima e unica opera di narrativa. Da allora la scrittrice indiana è diventata la voce dei senza voce. Cortei, sit-in, scioperi della fame e tanti saggi. Ha così incanalato la sua energia creativa in impegno militante, denunciando soprusi e ingiustizie: dalle grandi dighe sul fiume Narmada, che hanno lasciato senza terra milioni di contadini, alle persecuzioni dei musulmani per la 'deriva fascista' dei fondamentalisti indù. Per anni è stata una scelta: 'Nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio invece nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina' scriveva nel 2002 in Settembre alle porte. Oggi però le cose sono cambiate: 'Sto cercando di scrivere il mio secondo romanzo, ma non è facile', ammette dalla sua casa di New Delhi. Una frase che rivela la fatica che sta facendo a indossare di nuovo i panni della narratrice. Già due anni fa aveva confessato al "Guardian": 'Ho detto tutto quello che potevo sulla globalizzazione, come scrittrice devo andare in un posto diverso'. Ma il 'trasloco' non è ancora riuscito. Da qualche tempo va ripetendo: 'Non sono un'attivista. Gli attivisti non si stancano mai, mentre io sono esausta'. Eppure fino alla scorsa settimana, per San Valentino, era in prima linea al fianco di studenti e docenti universitari a una manifestazione contro le ronde moralizzatrici dei fondamentalisti indù che a gennaio hanno aggredito alcune ragazze in un discopub di Mangalore, accusandole di 'comportamenti osceni', atti contro le tradizioni indiane, segnali indecenti della contaminazione occidentale. 'Una guerra di classe combattuta sul corpo delle donne' l'ha definita Roy. La scrittrice, un'infanzia di esclusione sociale alle spalle (è cresciuta nel Kerala con la madre divorziata), ha preso la parola leggendo un brano del Dio delle piccole cose, saga familiare che la passione di una donna per un intoccabile trasforma in tragedia. 'Sono fuggita da casa a 16 anni perché era intollerabile l'idea di crescere in un piccolo villaggio — ha ricordato alla folla con il microfono in mano, il corpo minuto e aggraziato che sprigiona carisma, qualche filo grigio ad accennare ai suoi 47 anni portati da ragazzina —. Sono fuggita per essere felice, libera, loro vogliono toglierci l'aria e impedirci di respirare. Dobbiamo reclamare l'aria, dobbiamo farlo ogni giorno'. E lei continua a farlo. 'Scrivere saggi è soltanto un altro modo di capire la società in cui viviamo. Più diretto, pressante, a volte molto importante, soprattutto se vivi in una parte del mondo che sta sbandando verso il fascismo sotto i tuoi occhi'. Ma Roy non considera la lotta per i diritti umani una prerogativa degli intellettuali. 'Non prescriverei mai un ruolo prefissato agli scrittori: come gli idraulici o i meccanici, non sono un gruppo omogeneo con un unico orientamento culturale. Alcuni lavorano stando dalla parte dei governanti, altri dalla parte dei governati. Così pure per attori, giornalisti, sportivi, musicisti e tutti gli altri'. Poi sembra distinguere tra sostenitori di una causa e testimonial: 'Non credo che intervenire in una situazione politica come scrittore equivalga a sfruttare la propria fama per sostenere qualche particolare tipo di rivoluzione. Non si tratta di usare la propria celebrità ma di fare il proprio lavoro: guardarsi intorno. Vedere. Pensare. Scrivere'. Ma lei stessa ammette che non tutti gli sguardi sono innocenti. Per esempio Maximum City dell'indiano Suketu Mehta contiene un passo in cui lo scrittore osserva le torture della polizia. 'Mi ha disturbato la facilità con cui l'autore è andato in una stanza per le torture con un poliziotto amico e ha descritto quello che accadeva. Guardare la tortura non è un atto neutrale. Non si può essere spettatori, si diventa complici'. Apprezza invece La tigre bianca di Aravind Adiga, Booker Prize l'anno scorso, che racconta il lato meno scintillante della rivoluzione indiana: 'Il romanzo è stato accolto in India con molta rabbia. La cosa buona è che fa sentire a disagio chi deve essere messo a disagio'. Giudizio più sfumato per The Millionaire dello scozzese Danny Boyle, tra i favoriti agli Oscar: 'Ho visto il film, mi è sembrato girato in modo splendido, ha un grande impatto. Per il resto è stato come percorrere una strada accidentata. C'erano enormi buche culturali in cui il film continuamente inciampava. I dialoghi erano imbarazzanti, cosa che mi ha sorpreso perché invece ho apprezzato The Full Monty', dello stesso sceneggiatore, Simon Beaufoy. Poi racconta una di queste buche: 'Il giovane protagonista, il "cane dello slum" di Mumbai (lo "Slumdog" del titolo inglese, il pezzente, è un neologismo coniato, pare, dallo stesso Beaufoy, ndr), è chiaramente britannico. E la sua sicurezza culturale intimidiva il poliziotto, chiaramente indiano, che lo stava torturando. La pelle scura che li accomuna è troppo sottile per nascondere la forma di quello che li separa. Era come guardare i bambini neri di uno slum di Chicago parlare con l'accento di Yale'. Roy ha provato sentimenti ambivalenti: 'Felice che il film sgonfi il mito dell'"India scintillante", delusa che non lo faccia con il brio e la coscienza politica che il regista e lo sceneggiatore hanno mostrato in altri lavori. Ma ovviamente l'audience internazionale trangugia il film come melassa ...'. Diventare milionari vincendo a un quiz non è una forma di riscatto esemplare. Ma lei stessa ha riconosciuto che pure il tipo di protesta non violenta a cui ha aderito per oltre un decennio è fallita. E ora non se la sente più di condannare del tutto le persone che imbracciano le armi per far valere i propri diritti. La battaglia resta da combattere; come, non è chiaro. 'C'è un grande dibattito in India su questo, la strada è ancora da trovare». Una cosa è certa: la sua India è a un bivio: 'Da una parte la freccia indica Giustizia, dall'altra Guerra civile'. Speranze per le prossime elezioni, ad aprile? 'Le elezioni qui sono come un festival — dice —. Vanno e vengono senza portare molti cambiamenti. L'unico modo per evitare che la nostra società scivoli nel caos è che il governo garantisca un livello minimo di trasparenza. Oggi certe persone sanno che possono permettersi tutto: stupri, omicidi di massa, frodi pesanti, espropriazioni, la distruzione di foreste e fiumi'. E pure le cause dell'attentato di Mumbai sono soprattutto indiane, ribadisce. Anche dopo l'ammissione del Pakistan che l'attacco è stato in parte pianificato sul suo territorio con l'appoggio di una rete globale. 'Non mi stupisco. Identificare la provenienza di un attentato terroristico è come identificare la provenienza del capitale. Del resto, la stessa polizia di Mumbai ha ammesso che gli attentatori hanno avuto un appoggio logistico in India. Gli attacchi sono nati da una particolare storia e sono stati gli ultimi di una serie, di cui molti, secondo i servizi segreti, pianificati ed eseguiti qui in India. Presentarli come una sorta di attacco al Paese buono da parte del Paese cattivo è banale'. Lei, che definisce il terrorismo come 'la privatizzazione della guerra', e ha chiamato George Bush e la sua risposta al Terrore come 'l'incarnazione di un incubo mondiale', ora spera in Obama. 'Il suo compito non è diverso da quello del pilota che pochi giorni fa ha dovuto fare un atterraggio di emergenza nell'Hudson a New York — dice —. Anche l'impero americano ha bisogno di un atterraggio d'emergenza morbido. La sua politica estera dovrà cambiare e molti dei suoi cambiamenti saranno dettati dalla sua economia debole. Obama sembra avere il garbo e l'intelligenza per fare un buon lavoro. Però sono stata delusa perché non ha avuto il coraggio di condannare la recente violenza di Israele a Gaza'." (da Alessandra Muglia, Arundhati Roy: 'Giustizia o guerracivile: la mia India a un bivio', "Corriere della Sera", 20/02/'09)

mercoledì 18 febbraio 2009

Quando l’immagine cancella la realtà di Jean Baudrillard


"La violenza dell´immagine (e, in generale, dell´informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L´immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa. È d´altronde proprio nel fatto che qualcosa in essa è scomparso che risiede la seduzione, il fascino dell´immagine, ma anche la sua ambiguità; in particolare quella dell´immagine-reportage, dell´immagine-messaggio, dell´immagine-testimonianza. Facendo apparire la realtà, anche la più violenta, all´immaginazione, essa ne dissolve la sostanza reale. È un po´ come nel mito di Euridice: quando Orfeo si volta per guardarla, Euridice sparisce e ricade negli inferi. Così il traffico di immagini sviluppa un´immensa indifferenza nei confronti del mondo reale. In ultima istanza, il mondo reale si converte in una funzione inutile, un insieme di forme ed eventi fantasma. Non siamo lontani dalle ombre sui muri della caverna di Platone.
Un buon esempio di questa visibilità forzata, e in cui (in linea di massima) si mostra tutto, è il Grande Fratello e tutti i programmi dello stesso genere, reality show etc. È qui, nel momento in cui tutto è mostrato, che ci si rende conto che non c´è più nulla da vedere. È lo specchio della piattezza, del grado zero. È qui che ci si inventa una socialità di sintesi, una socialità virtuale in cui si comprova, contrariamente alle intenzioni, la scomparsa dell´altro e, forse, anche la natura non essenzialmente sociale dell´essere umano. A questo si aggiunge il fatto che il mito del Grande Fratello, quello della visibilità poliziesca totale, riguarda il pubblico stesso, mobilitato come voyeur e come giudice. È il pubblico che è diventato Grande Fratello. Ci troviamo oltre il panottico, con la visibilità come fonte di potere e di controllo. Ormai non si tratta più di far sì che le cose risultino visibili ad un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse, di cancellare cioè le tracce del controllo e di rendere invisibile anche l´operatore. La capacità di controllo si interiorizza e gli uomini non sono più vittime delle immagini: si trasformano inesorabilmente essi stessi in immagini (non esistono ormai più che in due dimensioni, o in una sola dimensione superficiale). Questo significa che sono leggibili in qualsiasi istante, sovraesposti alle luci dell´informazione, e sollecitati ovunque a mettersi in mostra, a esprimersi. È l´espressione di se stessi come forma ultima di confessione di cui parlava Foucault. Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. È non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell´immagine. È una violenza che va in profondità, all´essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch´esso la propria originalità; non è nient´altro che un operatore di visibilità, nient´altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice. Anche l´immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell´immagine, la fonte della violenza contro l´immagine. Tutto quello che si vede nell´operazione Grande Fratello è una realtà virtuale, un´immagine di sintesi della realtà, una trasposizione dell´every day life, già trattata a sua volta secondo i modelli dominanti.
Si tratta di voyuerismo pornografico? No, quello che la gente davvero brama non è sesso, ma spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità - quella della piattezza, dell´insignificanza e della nullità, una specie di parodia del suo estremo opposto: il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ma può darsi che ci sia in questo una forma di crudeltà, almeno virtuale: dal momento in cui la televisione è sempre più incapace di offrire un´immagine degli eventi del mondo, finisce per disvelare la vita quotidiana, la banalità esistenziale come l´evento più mortifero, come l´attualità più violenta, come il luogo stesso del Crimine Perfetto. Che poi è quello che in effetti lei è. E la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall´indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall´indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza. Non si tratta più di una metafisica del crimine e del sesso. È una patafisica del crimine perfetto: assunzione della banalità come destino, come il nuovo volto della fatalità. Contro-transfert illustrato dal fatto che tutti sono diventati Grande Fratello. Perfusione del Super-io nella massa. Non solo gli spettatori: tutti sono presi nella spirale della Grande Gidouille (il ventre di Ubu). La contemplazione del Crimine Perfetto, di questa perpetrazione della banalità, è diventata una autentica disciplina olimpica, o l´ultima metamorfosi degli sport estremi. In fondo, tutto questo corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all´immagine), o si cade nell´esibizionismo delirante della propria nullità. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla - estrema protezione contro la necessità di esistere e l´obbligo di essere se stessi. Da qui l´esigenza contraddittoria e simultanea di non esser visti e di essere perpetuamente visibili. Tutti giocano su due tavoli allo stesso tempo e non c´è nessuna etica né legislazione che possa porre fine a questo dilemma, quello che comportano il diritto incondizionato di vedere ed il diritto, altrettanto categorico, di non esser visti. La massima informazione possibile fa parte dei diritti dell´uomo e, pertanto, lo è anche la visibilità forzata, la sovraesposizione alle luci dell´informazione.
La cosa peggiore in questo gioco televisivo 'interattivo' è la partecipazione forzata, questa complicità automatica dello spettatore che va intesa come un autentico ricatto. Questo è l´obiettivo più chiaro dell´operazione: il servilismo, la sottomissione volontaria delle vittime che godono del male che gli si infligge, della vergogna che gli si impone. Tutta la società condivide questo meccanismo fondamentale: la abiezione interattiva, consensuale." (da Jean Baudrillard, Quando l’immagine cancella la realtà, "La Repubblica", 18/02/'09; anticipazione da Agonia del potere, Mimesis Edizioni)

martedì 17 febbraio 2009

Leo Lionni, immagine dell'allegria


"Leo Lionni inventò Piccolo blu e piccolo giallo nel lontano 1959 per i suoi nipoti Pippo e Annie. In quegli anni studiavo negli Stati Uniti e ricordo che un giorno, entrando in una libreria, vidi questo strano libriccino sugli scaffali dei libri per bambini. In Italia eravamo abituati a libri per l'infanzia molto tradizionali e l'idea di vedere una storia raccontata con macchie di colore mi aveva molto attratto. Lo comperai senza immaginare quanto sarebbe stato importante nella mia futura professione di editore. Passò qualche anno e quando decisi di mettermi a fare l'editore per bambini mi ricordai di quel libro. Leo Lionni in quegli anni trascorreva le estati sulle colline di Lavagna in una bella casa piena di colori a San Bernardo. Gli telefonai e chiesi di incontrarlo. [...] L'incontro con Leo fu molto bello: era entusiasta della mia iniziativa, mi fece vedere tutti i suoi libri e da quel lontano giorno d'estate del 1966 iniziò la mia lunga collaborazione e amicizia con lui. Leo era un uomo allegro, pieno di curiosità e di interessi e ben disposto a lasciarmi pubblicare i suoi libri in Italia. Il primo che pubblicai fu proprio Piccolo blu e piccolo giallo. Naturalmente in Italia all'inizio il libro ebbe vita difficile. I genitori italiani erano perplessi di fronte a un modo di raccontare così inusuale. Potrei quasi dire che il successo del libro è stato decretato dai bambini più che dai 'grandi'. Se oggi, a distanza di tanti anni Piccolo blu e piccolo giallo continua ad ottenere importanti riconoscimenti, probabilmente è perché esprime valori forti, ancora validi per le nuove generazioni e perché, cometutti sappiamo, i buoni librinon hanno tempo. Per tanti e tanti anni Leo è stato per me un amico importante. Il suo perenne stupore dinanzi alla vita, la sua grande sensibilità poetica lo rendevano capace di trarre spunto dalle piccole cose per creare meravigliosi disegni e meravigliose storie. Aveva la straordinaria capacità di saper entrare nella mente del bambino, e di esprimere con la sua immaginazione sensazioni e sentimenti universali. Leo diventò poi uno scrittore, un pittore, uno scultore e in tutte le sue opere si è sempre rivelato allo stesso tempo un maestro dell'irrazionale e del razionale, dell'irreale e del reale, dello scherzo e di una struggente consapevolezza." (da Rosellina Archinto, Lionni, immagine dell'allegria, "TuttoLibri", "La Stampa" 14/02/'09)

"Leo Lionni Immaginario esemplare": a dieci anni dalla morte si inaugura oggi a Parma (h. 17, Galleria San Ludovico) una sua mostra, curata da Marco Ferreri e ideata dal festival Minimondi, in collaborazione con l’editore Babalibri e la famiglia Lionni. Dal catalogo pubblichiamo un brano del ricordo di Rosellina Archinto, l’editrice che l’ha fatto conoscere ai bambini italiani.

La biblioteca di Hitler di Timothy W. Ryback

"Fu certamente più noto per aver bruciato i libri che per averne collezionati - scrive Ryback -, e tuttavia quando morì, all’età di cinquantasei anni, ne possedeva oltre sedicimila ... Da quella fonte bevve a grandi sorsi, placando la sua insicurezza intellettuale e nutrendo le sue fanatiche ambizioni."

"Leggo il libro di Ryback La biblioteca di Hitler (Mondadori), pieno di percorsi, di allusioni, di tracce che si dovrebbero inseguire, mentre ci sono altri due libri che continuamente mi assalgono, mi chiedono di approfondire i sintomi, di riflettere ancora sugli itinerari individuati. Il primo è la Nausea, di Sartre, dove il narratore è perseguitato da un mefitico, terrificante personaggio, che chiama l’Autodidatta e dal quale vuole comunque fuggire, mentre se lo trova sempre lì, tremendo e invincibile. L’altro è Dai romantici a Hitler, un 'saggio' Einaudi di Peter Viereck, apparso da noi nel 1948. Hitler era, prima di tutto, un Autodidatta, ovvero apparteneva, con assoluta dedizione, a una delle categorie più pericolose e ingovernabili, più truci e rovinose dell’intera storia dell’umanità. Privo di maestri con cui dialogare, privo di controlli e di orientamenti, privo di consigli e di correzioni, l’Autodidatta interpreta testi, sintomi, frasi, messaggi, indicazioni sempre e solo a modo suo. Così il nazionalismo del romantico Fichte, fondato anche su pericolose considerazioni sul primato della Germania e sull’eccezionalità dei tedeschi, serve a Hitler come fondamento filosofico per garantire la missione guerresca del suo popolo. La complessità variegata del pensiero di Fichte gli sfugge completamente, così come sceglie di inseguire il grande storico romantico inglese Thomas Carlyle solo quando esalta l’inquietante volontà di dominio di Federico il Grande. Se avesse avuto un maestro, se avesse seguito un buon corso universitario su Carlyle, Hitler avrebbe potuto cogliere anche le complicate sfaccettature dell’opera dello storico che, certo, premia gli Eroi con un culto di cui il Führer diviene subito un adepto, ma, in un capolavoro come Sartor Resartus, riempie di dubbi, di ironia, di problematicità proprio quella nozione che gli era cara. Hitler legge Karl May, affascinante scrittore di avventure, mescolandolo alle teorie di Karl von Clausewitz, tanto che, nella campagna di Russia, chiede ai suoi generali, sgomenti, di seguire le impostazioni tattiche e strategiche così bene esposte da Winnetou, il guerriero indiano che domina tante pagine del romanziere. È un po’ come se ad Armando Diaz qualcuno avesse imposto di seguire le tecniche di attacco esposte da Salgari in libri come I briganti del Riff, La favorita del Mahdi, Le avventure di Testadipietra ... Il lettore autodidatta si crea una propria ermeneutica nella quale le gerarchie e i sistemi di valori sono sempre paradossali. Così il grande industriale Henry Ford - autore di un terrificante volume pieno di odio distruttivo contro l’'internazionale ebraica', un odio che si era nutrito di un falso storico, I protocolli dei savi anziani di Sion -, è forse l’ispiratore più diretto e congeniale, proprio perché, da autodidatta, Hitler è pronto a seguire solo le proprie gerarchie di valori, non quelle suggerite da maestri che non ha mai avuto. Anche il grande viaggiatore e autore di memorabili libri di esplorazione, lo svedese Sven Hedin, letto da Hitler, vale essenzialmente per certi contenuti razzisti che si trovano nei suoi libri. Purtroppo - e di questa lacuna non so darmi una ragione - non si fa cenno, nel libro di Ryback, di quella Elisabeth Marlitt, che Mosse cita invece abbondantemente nel suo L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste. Era una scrittrice di quelle che in Italia avrebbero trovato spazio nel 'rosa Salani', ma i suoi libri comunicavano a Hitler una delle sostanziali premesse di tanto
suo riflettere e agire. La Marlitt era infatti una specialista nel comporre trame in cui una eroina protagonista veniva umiliata, perseguitata, sottomessa, proprio perché era onesta, pura, coraggiosa, sapiente. Ma la fanciulla sapeva combattere fino ad ottenere ciò che le era stato tolto. Come si comprende subito, è proprio lo schema a cui Hitler si legò, dai primi discorsi nella birreria di Monaco fino alle ultime, folli lagnanze nel bunker del suicidio. La fanciulla Germania, derubata, insultata, derisa a Versailles, mapoi resa trionfante da un eroe puro e coraggioso che aveva mescolato Carlyle con la Marlitt. Da autodidatta timoroso nel contemplare i moltissimi libri della sua biblioteca, e gran lettore perfino nelle peripezie del suo treno blindato per i vari fronti in cui si battevano i suoi soldati, Hitler aveva un ex libris con l’aquila e la svastica, accumulava testi su testi, cominciava, interrompeva, faceva rilegare, comprava più copie di uno stesso titolo. E poi, con i russi nel bunker, gli americani nel rifugio alpino e altri occasionali curiosi di cimeli, moltissimo è andato disperso. Ma la Hitler Library della Library of Congress è proprio tragica, cupa, nera, torbida come si pensa debba essere la vera libreria del Führer." (da Antonio Faeti, Hitler, quanto Male fa essere un autodidatta, "TuttoLibri", "LaStampa", 14/02/'09)

sabato 14 febbraio 2009

New Italian Epic di Wu Ming


"«Non si può essere grandi nel proprio tempo, la grandezza fa sempre appello ai posteri per i quali essa diventa passato». Così Bachtin sintetizzava l'effetto di distanza da un 'passato assoluto' - cioè inteso come categoria gerarchica
assiologica - che caratterizza l'epica antica. Il mondo epico, scenario della grandezza eroica, è separato dal presente, cioè dal tempo del cantore (o dell'autore e dei suoi lettori) da una distanza assoluta che lo rende inaccessibile all'esperienza personale. Il passato epico è, insomma, quella forma di percezione artistica dell'uomo e dell'evento per mezzo della quale un presente esiliato da ogni grandezza si mette al servizio di una memoria futura del passato. Questa forma si basa sulla priorità estetica del senso della vista. Il mondo epico è narrato a parole per gli occhi e dagli occhi. Un mondo abbracciato dallo sguardo panoramico di un testimone oculare escluso dall'evento il quale, terzo canto dell'Iliade quest'estetica dello splendore sensibile di un cosmo rappresentato come totalità compiuta trova la propria tecnica poetica nella teichoskopia (letteralmente 'guardare dalle mura') quando Elena, sollecitata da Priamo, sale sugli spalti di Troia, e, seduta fra gli anziani, riconosce gli eroi achei che si schierano in ordine di battaglia in fondo alla piana. E' un momento di spettacolo nello spettacolo: tutti i pubblici - quello dei presenti, quello dell'aedo e dei futuri lettori del poema - sono già in embrione nello sguardo autoptico di Elena. Solo dopo questo avvistamento la battaglia può avere inizio. E non finire mai. Se consideriamo questi tratti dell'epica antica (distanza assoluta ed estetica letteraria dello spettatore) l'ipotesi di un ritorno al modo epico nella recente narrativa italiana avanzata da Wu Ming in New Italian Epic (Einaudi) acquisisce un'indubbia forza di lettura del presente. Bisognerà, certo, superare il fastidio per gli annunci di 'svolte epocali' che si ripropongono oramai con cadenza settimanale e anche altri aspetti respingenti di un testo militante fino alla partigianeria. (A volte la categoria di 'tono epico' viene usata in modo tanto elastico da svuotarla di significato. La parte in cui s'indicano autori, opere, testi esemplari risulta, così, poco 'condivisibile' perché frutto di una critica che si presenta apertamente come autobiografica, con tutto ciò che di self congratulatory questo comporta e, dunque, tende a muoversi lungo linee che privilegiano una qualche comunanza di vita, interessi, intenti, il che comporta che il condiviso soppianti il condivisibile). Una volta sbarazzatisi di questa riluttanza, però, si faticherà a non riconoscere che una soglia storica è stata effettivamente attraversata in Italia al principio degli anni '90 da una generazione in formazione (generazione letteraria, sottolinea Wu Ming). Mani Pulite, crollo del Muro di Berlino, Prima guerra del Golfo. Questi i tre accadimenti che - a mio modo di vedere - nel giro di un paio d'anni segnano la nuova stagione. Con i primi due tramonta, infatti, l'orizzonte rivoluzionario che per più di un secolo aveva orientato il corso della storia europea (un mutamento la cui enorme portata culturale non è stata ancora pienamente stimata). Degradazione della politica e smobilitazione ideologica comportano allora una 'de-epicizzazione' della vita quotidiana: da questo momento, ogni grandezza apparterrà al passato (o al futuro). Il presente non è tragico - non ne ha l'altezza -, è meschino. Con i secondi due (crollo del Muro, guerra del Golfo), vaste aree dei mondi della vita vissuta vengono, poi, colonizzate dall'irrealtà televisiva. Entrambi gli eventi sono, infatti, vissuti dalla mia generazione come eventi mediatici. In entrambi i casi, una notte trascorsa davanti alla tv. O poco più. Nel ritorno al modo epico, sia sul piano tematico (grandi imprese, guerre, anabasi, conflitti destinali) che su quello formale (ampio respiro, lunga gittata, ricerca del grande stile), si ha la reazione di una famiglia non biologica di scrittori (una tra le altre, sia ben chiaro) che si sente imprigionata in un'epoca di restaurazione. A un immalinconirsi della società civile si reagisce con la proclamazione di un impegno etico nei confronti dello scrivere, a un vizioso minimalismo della politica con un massimalismo della narrazione. Quando il destino ti ha riservato soltanto i toni della commedia - ironia, sarcasmo, farsa, in quest'ordine degradante - abbracciare la distanza assoluta dell'epica può significare ritrovare il senso della lotta. Su questo piano, il ritorno all'epos è il modo di dire no ai giorni del presente scelto da una generazione cui è toccata in sorte la dittatura del comico. Vi è, però, ben delineato da Wu Ming, un secondo movimento del ricorso epico, questa volta non reattivo ma proattivo. Il ricorrere storico dell'epica produce usi della narrativa letteraria diversi dai precedenti (non migliori né peggiori, e anche questo sia ben chiaro). Con la sperimentazione di poetiche di riuso passionale della tradizione, con l'attitudine popular ad alta complessità narrativa, con l'apertura alla transmedialità comunitaria, diviene possibile un agire comunicativo rivolto al futuro. Soprattutto si tenta di recuperare uno sguardo orbitale - analogo contemporaneo della teichoskopia omerica - che ribalti in senso virtuoso l'illusoria panoramicità della visione a distanza televisiva. Un intero mediascape di sguardi, vissuti, sofferenze altrui viene allora abbracciato dalla ritrovata magnanimità epica. Saviano, ad esempio, non ha vissuto ogni singola storia che racconta, molte le ha verosimilmente tratte dalla cronaca, ma assume una postura epica quando si fa testimone autoptico di tutte garantendo per esse in prima persona (fino alle estreme conseguenze). In questo senso, autofiction introvertiva e nuova oggettivazione epica non sono estranee. Sono, piuttosto, due fasi di oscillazione di un medesimo movimento. Un pendolo che non può, proprio non può, arrestarsi nel mezzo di un accordo con la mediocrità del presente perché lì s'impaluderebbe nelle marcite dell'inesperienza." (da Antonio Scurati, Reagire con la scrittura al degrado politico e alla smobilitazione ideologica, "TuttoLibri", "La Stampa", 07/02/'09)

Wu Ming, se questa è letteratura di Fabrizio Rondolino (da LaStampa)

venerdì 13 febbraio 2009

Il vangelo di Darwin

The Complete Works of Charles Darwin online


"L'idea prende forma lentamente, in modo laborioso, erratico. Non un'illuminazione improvvisa, non un colpo di genio in cui tutti i problemi trovano soluzione in un eureka: al contrario, un mosaico che si compone di mille osservazioni minute e disparate, un puzzle che nel corso dei decenni sembra raffigurare paesaggi mutevoli. Già nel 1837, l'anno successivo al suo ritorno in patria dopo il lungo viaggio intorno al mondo a bordo del brigantino Beagle, Charles Darwin annota nel primo dei taccuini sulla trasmutazione: 'l'albero della vita dovrebbe forse essere chiamato il corallo della vita, giacché la base delle ramificazioni è morta', e illustra questa idea con vari schizzi di diagrammi ramificati. Nel settembre del 1838, leggendo il Saggio sul principio di popolazione di Malthus e alcuni scritti del botanico svizzero Augustin de Candolle, individua nella 'guerra delle specie' - in quel meccanismo che avrebbe più tardi chiamato selezione naturale - la spiegazione del 'mistero dei misteri', cioè la comparsa di nuove specie. L'intuizione viene elaborata pochi mesi dopo nelle pagine del cosiddetto taccuino E, diventando - nelle parole dell'autore - una 'teoria', che può riassumere in soli tre principi nitidamente enunciati. Darwin, nonostante le certezze e le conferme che via via sta accumulando (da buon 'induttivista baconiano', come dirà di se stesso nell'Autobiografia), continua a mantenere segreta la propria teoria dell'evoluzione. Nel 1842 redige, a matita, un Abbozzo già abbastanza circostanziato, che sarà ampliato due anni più tardi in un Essay di duecento pagine: lo affida alla moglie accompagnato da una lettera, da aprire solo nell'eventualità di una morte improvvisa, in cui le dà precise istruzioni per curarne la pubblicazione postuma. Ma ancora non si decide a uscire allo scoperto. All'amico Joseph Dalton Hooker scriverà, con cautela, di essersi 'quasi convinto che le specie non sono (è come confessare di aver commesso un assassinio) immutabili'. Nella quiete di Down House - la residenza di campagna dove si è ritirato dal 1842 - si immerge, per otto interminabili anni (1846-1854) di lavoro certosino, nello studio sistematico della tassonomia dei cirripedi viventi e fossili, pubblicando sull'argomento quattro ponderose monografie. Ma i suoi pensieri continuano a ruotare intorno all'idea evoluzionistica: anzi, proprio le ricerche sui cirripedi, con i bizzarri esempi di esasperato dimorfismo sessuale che mostrano questi organismi, lo convincono - come scrive a Hooker nel 1848 - che 'la [propria] teoria delle specie è vangelo'. Mentre Darwin attende (finalmente) alla stesura del suo libro sulle specie, compiendo esperimenti sulla variazione e l'incrocio dei colombi e non stancandosi di raccogliere conferme sperimentali di ogni genere, la situazione precipita. Nel 1856 viene pubblicato sugli Anals and Magazine of Natural History un curioso articolo sulla 'introduzione di nuove specie' a firma di un certo Alfred Russel Wallace, un giovane naturalista impegnato in un viaggio di esplorazione dell'arcipelago malese. Ne segue un carteggio tanto cortese quanto circospetto, nel quale Darwin cerca di capire fino a che punto il suo corrispondente abbia sviluppato le proprie idee, finché nel febbraio del 1858 viene recapitato a Down House un plico contenente un manoscritto di venti cartelle. È un duro colpo: 'Se Wallace avesse avuto il mio abbozzo manoscritto del 1842, non avrebbe potuto farne un riassunto migliore', esclama Darwin, avvilito, in una lettera al geologo Charles Lyell. Quest'ultimo, insieme a Hooker, decide di trasmettere alla Linnean Society di Londra una comunicazione congiunta di Darwin e Wallace dal titolo Sulla tendenza delle specie a formare varietà; e sulla perpetuazione delle varietà e delle specie per mezzo della selezione, che sarà letta nella seduta del 1° luglio 1858. Nel frattempo, Darwin porta a compimento, lavorando in modo febbrile, il proprio libro, L’origine delle specie. All'inizio di ottobre del 1859, anche le bozze sono corrette: 'e con questo è tutto per il mio abominevole - scrive, esausto - che mi è costato un tale travaglio che quasi lo odio'. Nonostante la tenacia con la quale Darwin edificò mattone dopo mattone la propria teoria, L’origine delle specie non è da considerarsi il punto terminale quanto piuttosto il punto di avvio di un itinerario di ricerca che non ha cessato di svilupparsi fino ai nostri giorni. Non si deve commettere l'errore di considerare l’'evoluzionismo darwiniano' un dogma o peggio ancora una 'credenza': è una teoria scientifica, o ancor meglio un programma di ricerca, fondato su innumerevoli e solide evidenze sperimentali, provvisto di robusto potere esplicativo e predittivo, ma - proprio per questa ragione - non imbalsamato in una forma conchiusa, non mummificato in un catechismo: al contrario, è ininterrotto il dialogo con le altre discipline scientifiche, continuo il confronto con i fatti empirici. Nella scienza di oggi, la decrifazione del codice genetico, le tecniche di clonazione, le nuove ricerche sui meccanismi di insorgenza dei tumori, le ipotesi, sempre più circostanziate, sull'origine della vita sulla Terra, sono inconcepibili se non all'interno di un edificio teorico che ha nella teoria dell'evoluzione una delle pietre angolari." (Claudio Bartocci, E' l'evoluzionsimo il quinto vangelo, "TuttoLibri", "La Stampa", 07/02/'09)

mercoledì 11 febbraio 2009

Non voglio più vivere alla luce del sole di Michael Zielenziger


"Alex ha messo un chiavistello alla porta della sua stanza e per oltre sei mesi ha chiuso il mondo fuori. Andrea da nove passa le sue notti su Internet perché la vita vera, dice, è lì. Anna esce dalla camera solo di notte per assaltare il frigorifero. Luca risponde esclusivamente a chi lo chiama con il 'nick' perché il suo nome gli suona vuoto come la sua esistenza. Confondono il giorno con la notte, parlano con gli sconosciuti e sono sconosciuti in casa loro. Sono le esistenze rovesciate degli hikikomori, i giovani autoreclusi, non più solo giapponesi. Per conoscere le loro storie devi parlare con le sentinelle impotenti del loro ritiro. Genitori, fratelli, amici: 'Mio figlio per oltre sei mesi mi ha parlato solo attraverso la porta e solo per urlarmi "lasciami in pace"'; 'Mia sorella esce quando tutti dormono: mi ruba le sigarette dallo zaino e torna a rinchiudersi'. Ma per incontrarli non puoi che andarli a cercare nel loro regno: Internet. Ecco Chaoszilla, dà un nome agli autoreclusi come lui: 'Io sono un hikikomori'; Pavély spiega cos'è, un hikikomori: 'È una parola giapponese. Indica il comportamento di quei ragazzi che per anni vivono in casa, senza affrontare la vita e l'amore. Solo Internet e fumetti. Cosa importante: io sono uno di loro'; Miki s'identifica, quindi quantifica il fenomeno: 'Ve lo dico: hikikomori è un traguardo, è la frontiera. In Giappone sono circa un milione. In Italia siamo mostruosamente indietro ma la necessità di isolarsi dall'orribile mondo esterno vedo che si diffonde sempre di più'. Su una cosa Miki e il mondo fuori dalla sua stanza sono d'accordo: gli hikikomori, anche in Italia, sono sempre di più. Non esistono statistiche sulla lost generation nostrana. Solo le testimonianze di psicologi: oltre 50 i casi che abbiamo registrato. E le storie (nascoste dietro nomi di fantasia) di Alex: 16 anni e una vita in 20 mq scandita dal rombo degli aerei di Malpensa; Andrea: un anno in più di Alex e una 'cella' alle porte di Brescia; Valentina: rinchiusa in un appartamento sull'Adriatico; Luca: solo di recente uscito dal suo 'guscio' in Gallura. Più maschi che femmine. Quasi sempre under 18, almeno in Italia. Molto intelligenti, creativi, ma introversi. Letteralmente giovani 'in ritiro', ragazzi che senza un apparente motivo si chiudono nella loro stanza. Chi (come Oblomov di Goncarov) per incapacità di affrontare il mondo, chi (è il caso di Miki) per esprimere la sua rabbia. E ancora: chi per mesi, chi per anni. Il record nostrano: tre-quattro anni. Quello nipponico: 15 e più. Per alcuni la clausura è totale, per altri parziale: qualcuno esce dalla propria stanza per cenare con i genitori, per andare in vacanza, chi vive solo è obbligato a farlo per comprare del cibo nel supermercato più vicino. In Giappone gli hikikomori sono un fenomeno culturale e sociale: sono oltre un milione, l'1% della popolazione, il 2% degli adolescenti. Alcuni ricercatori, tra cui Michael Zielenziger (suo il saggio Non voglio più vivere alla luce del sole), hanno avanzato l'ipotesi che anche la principessa Masako Owada, ne sia affetta. La colpa della loro autoreclusione è stata data alle pressioni sociali, alla severità del sistema scolastico, alla spinta verso l'omologazione, alle madri oppressive, ai padri assenti, al bullismo. Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare quello che viene definito un disturbo ('non una patologia'). Ma è stato anche il primo a evidenziare alcuni punti di contatto tra i ragazzi giapponesi e i 'mammoni italiani'. A ricordarlo è Carla Ricci, antropologa con una vita a Tokyo e autrice del libro Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione. 'Il fenomeno è tipicamente giapponese. Ma da lì si sta allargando in Corea, Usa, Nord Europa, Italia'. La prima analogia: 'Lo stretto rapporto con la madre. Proprio il suo essere iperprotettiva, spesso entrambi i genitori lo sono, può rendere il figlio narcisista e fragile. E alla prima difficoltà si ritira'. Inizia col passare sempre più ore nella sua camera, col disertare le cene in famiglia, niente amici, sport, cinema. 'Finché un mattino dice di non voler più andare a scuola perché ha bisogno di riposarsi'. Nell'ultimo anno all'Istituto Minotauro di Milano, dove lavorano Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti, si sono rivolti i genitori di oltre 20 ragazzi. Le loro storie sono coperte dal più stretto riserbo. 'Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni'. Spiega Pietropolli Charmet: 'In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni '60-'70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri 'autoreclusi' condividono con loro più di un aspetto'. Continua Piotti: 'Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori'. All'origine c'è poi spesso una fobia scolastica. 'Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall'incapacità di gestire relazioni di gruppo'. Identico il risultato: 'Si chiudono in una stanza. Sostituiscono la vita reale con quella virtuale. Ma Internet e i giochi di ruolo sono solo una conseguenza, non una causa', afferma Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, una decina di casi trattati. Spesso, come le anoressiche, negano il proprio corpo. Ultimo passo: l'inversione del ritmo circadiano, vivono di notte e dormono di giorno. Più il ragazzo vive nel suo guscio, e per questo soffre, più è difficile farlo uscire. 'Il problema è entrare in contatto con loro', dice Giovanna Montinari, psicoterapeuta della cooperativa romana 'Rifornimento in volo', altri due casi allo studio. Non resta che parlare con i genitori, con gli amici. 'Ma a volte il contatto arriva solo grazie a quello che chiamiamo "compagno o fratello maggiore", un giovane psicoterapeuta'. È il caso di Alex: la prima persona a cui ha aperto la porta, dopo oltre sei mesi di autoreclusione, è stata la 'sorella maggiore' che ha bussato alla sua chat." (da Alessandra Mangiarotti, Chiusi in una stanza: gli hikikomori d'Italia, "Corriere della Sera" 11/02/'09)

lunedì 9 febbraio 2009

Viaggio intorno a Simenon


"A tutti quelli che hanno letto sempre e soltanto i romanzi di Simenon con il commissario Maigret perché amano la serialità: non sapete che cosa vi siete persi. E soprattutto non avete capito: anche l'altro Simneon è seriale, ha lo stesso protagonista, lo stesso ambiente, la stessa dinamica. Romanzo dopo romanzo, Simenon ci racconta storie di 'uomini che guardavano passare i treni'. E' tale il più esemplare di loro, Kees Popinga da Groningen, un uomo di quarant'anni con casa, moglie, figlia, 'una stufa del modello più perfezionato, una scatola di sigari sul caminetto e un eccellente apparecchio radio da quasi quattromila franchi'. E' un uomo dalla vita inscritta in un cerchio dove le passioni sono state barattate con le certezze, i rischi con le abitudini e l'unico atto fuori dall'ordinario è osservare la rotaia che tutto contiene e i treni che vi passano sopra per andare lontano. In un'altra vita, in un'altra storia, fa 'l'orologiaio di Everton' (Saint-Paul nella versione cinematografica), che 'si limitava a vivere senza fretta, senza problemi, senza esserne neppure appieno cosciente, ore così uguali l'una all'altra da indurlo quasi a credere di averle già vissute'. O 'il libraio di Archangelsk' che per anni mangia al ristorante italiano di Pepito, dove nulla mai cambia, facendolo diventare una seconda casa. In questa routine si muovono tutti i piccoli uomini di Simenon. Piccoli perfino quando sono (stati) grandi, come 'il presidente', l'ex primo ministro a riposo, che non a caso esordisce 'appoggiato allo schienale pressoché dritto della vecchia poltrona Luigi Filippo, di pelle nera ormai logora che per quarant'anni lo aveva seguito da un ministero all'altro'. Sono prigionieri, sconfitti o arresi senza aver mai combattuto, non stanno aspettando niente. Intorno a loro c'è uno scenario fatto di poche costanti claustrofobiche. Il più delle volte piove, in un modo che non sembra poter avere fine. Pagine intrise. [...] Il personaggio, meglio sarebbe dire l'ostaggio, nelle sue molteplici incarnazioni è segregato dalla meteorologia e da un'altra forma di oppressione: quella del clan. Il clan lo attornia, lo opprime, lo annulla. E' un cerchio che si stringe. Molto spesso a rappresenetarlo è la famiglia [...]. Questo ordine delle cose sembra immutabile, la routine infrangibile, la pioggia incessante, il clan invincibile, finché succede qualcosa. Un piccolo grande evento per un piccolo grande uomo. Lo dichiara lo stesso Simenon nelle prime righe di La verità su Bebé Donge. 'Accade talvolta che un microscopico moscerino increspi la superficie di una pozzanghera più della caduta di un enorme sasso'. Basta davvero poco: al dottor Mahé la vista di una ragazzina vestita di rosso (che 'non era una donna, e neppure un corpo', ma 'la negazione di tutto quello che era stata la sua vita'); al piccolo libraio di Archangelsk la scia dell'odore delle ascelle di Gina Palestri un giorno d'estate in cui entra nel suo negozio; al viaggiatore del giorno dei morti 'un impalpabile pulviscolo dorato' che danza in un raggio di sole mentre zia Colette sta finendo di vestirsi. E la svolta si compie, nulla è più come prima, perché nulla era mai stato così come lo si credeva. Nessuno era quel che era, conteneva in sé il germe della rivolta, la miccia dell'esplosione, la via di fuga. Talvolta un olezzo o una visione non bastano, occorrono il crimine di un figlio (come all'orologiaio) o la bancarotta del padrone (come a Popinga) perché la catena si spezzi e l'ostaggio delle convenzioni, della pioggia e dei clan si liberi e ammetta: 'Per quarant'anni ho guardato la vita come quel poverello che, col naso appiccicato alla vetrina del pasticciere, guarda gli altri mangiare dolci'. Dopodiché, entra nel negozio e si ingozza fino a morire. Questo è il bivio senza uscite a cui Simenon conduce il suo personaggio seriale, il piccolo grande uomo che non era Maigret: avvizzire nella vita segnata, o scartare di lato e abbracciare la rovina, spesso la morte. Con iniziale entusiasmo e terminale consapevolezza i più scelgono la seconda strada e svelano a se stessi 'il segreto degli uomini' come lo definisce l'orologiaio. E' un segreto mal custodito da generazioni, che Simenon espone e nobilita: è la vocazione gloriosa all'autodistruzione, la realizzazione di sé attraverso un male così purificato da trasformarsi in bene rovesciando ogni morale, l'accettazione del nulla come legge e del tutto come conseguenza. Giacché, per dirla con l'immortale Popinga: 'Non c'è una verità, ne conviene?'." (da Gabriele Romagnoli, Viaggio intorno a Simenon, "La Repubblica", 08/02/'09)

Vittorino Andreoli: "La scomparsa della tristezza"


"Il romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse, esce nel 1954. Un successo strepitoso, l'autrice aveva 18 anni. Il film, diretto da Otto Preminger, è del 1958. Tutto accade appena in tempo, se si pensa che l'imipramina, il primo antidepressivo, nasce nel 1957-8. Questione di pochi mesi e si sarebbe potuto scrivere al posto di Bonjour tristesse, Bonjour Imipramine. La tristezza è stata ammazzata: i tristi amori, scomparsi. Non esiste più nemmeno come parola, cancellata dall'uso corrente. Morti anche termini come "inquietudine" (l'"inquieto è il mio cuore finché non riposa in Te" di Agostino); come "anelito", "disperazione" (disperata attesa). Tutto è stato buttato dentro depressione e depressione si coniuga necessariamente a antidepressivo. Il demone sconfitto dal Bene dei farmaci, dalla chimica dalle formule magiche uscite dai laboratori scientifici delle grandi industrie farmaceutiche. La lotta tra il male, la depressione e il bene, l'imipramina o gli SSRI (Inibitori della ricaptazione della serotonina). Sarebbe tempo di occuparsi della uccisione delle parole, delitti che andrebbero puntiti severamente. E' capitato anche per l'angoscia, l'angustia, la trepidazione, il timore, il tremore (interiore). Il grande capolavoro di Kierkegaard Timore e tremore nasce nel 1843, lontano per fortuna dal 1961: anno della nascita delle benzodiazepine. Soren lo avrebbe dovuto chiamare Anxiety and Benzodiazepines e lo avrebbe dovuto pubblicare sul New Scientist. Nemmeno più regge la distinzione tra ansia e angoscia (Angst di Freud) che trasmette, anche in immagine, il trovarsi dentro un vicolo stretto che si chiude, come pare accadere per la trachea che non lascia più passare aria e si avverte la fine, la morte.
La tristezza sembra non esistere più, non far parte dei nostri sentimenti, di quella sequela di vissuti esistenziali che pur vicini tra loro hanno caratteristiche differenti, capaci di distinguere ciò che viviamo con partecipazione differente, con un dolore che sa di pietà o di disperazione. Sono un vecchio psichiatra ormai e mi pare di appartenere alla categoria dei rulli compressori, quelli che rendono tutto piatto: un rullo compressore dei sentimenti. Per semplificare tutto e per rendere possibili i rapporti automatici tra sintomi e farmaci, bisogna certo semplificare. Anche perché qualcuno non si metta a cercare e a trovare il farmaco contro la trepidazione e poi uno specifico per la tristezza. Tutto è anxiety e depression. Tutto è antidepressivo e ansiolitico. La vita dei sentimenti si è impoverita e ormai per essere certi di non avere una prescrizione di psicofarmaci bisogna non avvertire più niente, essere sentimentalmente vuoti. Aveva ragione Benedetto Croce: se eliminiamo le parole scompaiono i concetti e oggi — egli direbbe — persino i sentimenti. Forse anche per questo i poeti tacciono, temono di essere tutti curati per anxiety and depression. Bisognerebbe ripartire dall'uomo, e non dai sintomi e dai farmaci, per fare una nuova psichiatria." (da Vittorino Andreoli, La scomparsa della tristezza, "Corriere della Sera", 08/02/'09)

Le biblioteche che verranno


"Chissà se la crisi americana permetterà di portare avanti il progetto del rinnovamento della New York Public Library, la storica biblioteca che dal 1911 domina tra la 40esima e la 42esima strada. Il progetto, che porterà la firma di Norman Foster, comporterà un investimneto di 250 milioni di dollari. Il "New York Times", in un articolo dello scorso dicembre, ne parlava in termini entusiastici. La nuova biblioteca dovrebbe essere completata nel 2013: ma non è tutto. L'allargamento e il rifacimento della storica sede è infatti parte di un disegno più ampio (della portata fantasmagorica di 1,2 miliardi di dollari ...) di rilancio di tutto il sistema bibliotecario della Grande Mela, con la creazione, tra l'altro di due nuove biblioteche: a Staten Island e nell'Upper Manhattan. Di questi soldi per l'operazione, 500 milioni dovrebbero essere raccolti da privati, con una campagna pubblica. La crisi, probabilmente, rimetterà in discussione i tempi. Ciò che non è in discussione è che New York avesse deciso un investimento così ingente nelle biblioteche. E dire che oggi molti sarebbero pronti a scommettere sull'inutilità di queste istituzioni, dal momento che il sapere è disponibile on line ... oppure, come accade da noi, sarebbero pronti a farle morire per mancanza di fondi. Le Biblioteche Nazionali Centrali di Firenze (cui lo Stato, coem da capitolo di bilancio, darà un contributo di zero euro - ZERO - per il 2009!) e di Roma, da qualche settimana, hanno sospeso la distribuzione dei libri nelle ore pomeridiane, per non parlare di altri disservizi negli Archivi di Stato. Causa: la riduzione di personale e l'impossibilità di nuove assunzioni. Eppure in un saggio esemplare pubblicato sull'ultimo numero della "Rivista dei libri", lo storico Robert Darnton ha spiegato cosa si prepara, in futuro, per la custodia dell'informazione. E con pacatezza fornisce una serie di considerazioni: lunga vita alla biblioteca, spiega Darnton, ma anche lunga vita a Google, il motore di ricerca che ha rivoluzionato il nostro stesso modo di 'percepire' il sapere. Rispetto a tutti questi temi, così enormi, non posso fare a meno di sorridere con simpatia al libro di un giovane bibliotecario 'di frontiera', Marco Bellonotto. Non suoni offensiva, la categoria della simpatia, anzi: Il lettore occasionale (Guida, Napoli) è una riflessione disincantata e molto auto-ironica su cosa voglia dire fare e soprattutto come si faccia oggi il bibliotecario. Che parte sfatando i triti luoghi comuni sui libri e continua demolendo il 'bibliotecariese' senza pietà. Dando ai libri e alla vita che ci gira intorno il giusto risalto, valutando con garbo sottile. Più di tutto colpisce la signora che entra in questa piccola biblioteca ligure - sprovvista di titoli essenziali, con le presentazioni con zero persone e tutto il resto ... - e chiede un libro. Legge, dice Bellonotto, per sfuggire alle sofferenze della vita. E sì: la lettura è anche un rifugio. Proprio come le biblioteche. Grandi o piccole che siano non importa: purché abbiano un'anima." (da Stefano Salis, Le biblioteche che verranno, "Il Sole 24 Ore Domenica", 08/02/'09)