lunedì 17 agosto 2009

Tra viole e mirtilli il paradiso di Lalla


"«Cardo selvatico», l'aveva definita il suo maestro, lo storico dell'arte Lionello Venturi, dopo avere invano tentato di sedurla a Parigi. «Pallade color dell'ulivo», la chiamava Franco Antonicelli, immaginoso dandy «incredibilmente bello». L'aveva corteggiata anche Mario Soldati (ma lei: «Non ho mai creduto alla sua cosiddetta ammirazione: eccessiva e insieme distratta»). Erano tutti intimiditi dall'altera bellezza nordica, alla Ingrid Bergman, di Lalla Romano. Di stile nordico erano anche le sue vacanze estive. Nel dopoguerra, e per trent'anni, appena finite le scuole dove insegnava, lasciava marito e figlio e a luglio saliva in perfetta solitudine a Cheneil, due ore di mulattiera da Valtournenche, la valigie portate su da un mulo che non si capiva mai bene quando si decideva a partire. L'ascesa (la purificazione) si perfezionava attraverso un fitto bosco di latifoglie, poi di larici e abeti, tra mirtilli e fragole, rododendri e myosotis. In cima, i pascoli punteggiati di viole, anemoni, genziane, aquilegie. Non era nemmeno un villaggio, Cheneil. Un alpeggio, una sorta di palco reale affacciato sulla montagna. Poche baite attorno a due alberghi severi, costruiti in pietra grigia all'inizio del secolo. Mai più di quattro o cinque clienti, tutti originali la loro parte. Ci avresti potuto trovare dei filosofi eremiti, degli eccentrici vocati alle solitudini estreme come Hermann Hesse, Wittgenstein, Thomas Bernhard. L'albergo di Lalla era gestito dai Carrel, stirpe leggendaria di guide alpine, discendenti di Jean-Antoine, che nel 1865 aveva conteso a Whymper la conquista del Cervino. La scalata fu preparata proprio da una delle baite di Cheneil, dove avevano piazzato un potente cannocchiale che, grazie all'angolazione favorevole, consentiva di studiare in dettaglio la salita.
Come avesse scoperto Cheneil, («più che un eremitaggio è una solitudine boreale») Lalla Romano non dice. Là si sentiva libera, o meglio liberata, ma anche parte di un ordine che esige un rispettoso noviziato. Voleva depurarsi delle congestioni della vita cittadina per ritrovare i silenzi, i ritmi della sua Demonte, delle sue Alpi marittime «magre, scabre». Erano state proprio le montagne dell'infanzia a dettarle lo stile che poi l'ha resa inconfondibile, fatto di essenzialità, asciuttezza, rifiuto del sentimentalismo e della facilità. Più tardi avrebbe trovato il precetto estetico cui ispirarsi in un pensiero di Joubert, grande moralista francese del Settecento che pochi conoscono: «Concentrare una pagina in una riga, e una riga in una parola». Cheneil era una prova di iniziazione, la faccia occulta di verità umane da scoprire senza fretta, una discesa in se stessi e negli altri. Allo stesso modo, di un paesaggio Lalla cercava la verità segreta, le linee di forza nascoste, quasi la psicologia. Lei, che era stata una brava pittrice, diceva: «Il paesaggio spesso è meno naturalistico di un ritratto». E anche: «La natura non esiste se non come astrazione nostra».
Tra i signori un po' nevrotici alla ricerca di se stessi e le montagnine murate nei loro segreti, nella loro rassegnazione, negli avari sorrisi (sono loro che gestiscono quell'economia rudimentale) scoccano i cortocircuiti che sono l'oggetto dei racconti prima compresi nel volume La villeggiante (1975), poi raccolti da soli in Pralève (1978). È questo il nome d'invenzione da lei dato al posto per non urtare la sensibilità dei nativi, che magari non avrebbero gradito ritrovarsi disvelati con tanta intuitiva acutezza. La stessa che distingue nel silenzio apparente della montagna «infiniti minimi suoni, ronzii, flauti di uccelli». Lalla di musica si è sempre nutrita: «A quell'ora tornavano le mucche sospinte dai pastori. La testa appoggiata al muro e gli occhi chiusi, ascoltavamo. Basta abbandonarsi, lasciarsi sommergere dai diversi e monotoni suoni dei campani; dopo un poco, di colpo si distingue il disegno musicale. A macchie, a toni innumerevoli accostati e sovrapposti, come nei quadri senza figure formati da un pioggia di tocchi insieme chiari e confusi».
«Giravo sola, esploravo i posti: costoni, vallette, sentieri ancora per me senza nome. Ero gelosa di questo; e il fatto di poter andare, stare, senza incontrare nessuno era proprio quello che avevo cercato a Pralève. Cosa facevano gli altri, non era difficile saperlo: andavano in giro anche loro. Ma i sentieri erano tanti. Li vedevo solo a pranzo». Questa Robinson alpina sa che il «privilegiato silenzio» cui tanto aspirano i rari ma fedeli villeggianti, per i nativi «è una specie di prigione, da cui essi evadono col bicchiere di vino, la scodella di grappa». Le zuccherose falsità dell'idillio non le appartengono. Sa bene che anche la pietà per i destini già segnati, anche la solidarietà restano come frenati dalla consapevolezza di una irriducibile alterità. «Imparai che loro non si aspettano mai nulla da noi». Già allora, in quegli Anni '50 che noi amiamo immaginarci in bianco e nero, e in cui il turismo di massa era ancora inimmaginabile, c'era chi parlava di una mitica età dell'oro, dell'antica Pralève/Cheneil non contaminata dalle aggressioni dei cittadini, perché è tipico d'ogni tempo immaginare se stesso come qualcosa di degradato rispetto a un'epoca favolosa. Primo Levi scrisse a Lalla d'aver apprezzato quei «brevi, fotografici incontri con gli “indigeni”, pieni di risonanze misteriose come indigeni di lontanissimi paesi invece che delle nostre valli. Tutti i suoi incontri umani, del resto, sono magici: non c'è mai traccia di un'antipatia o anche di un giudizio, ma una distanza che trasfigura». Espresse il suo apprezzamento anche Pietro Citati, per solito poco tenero con i contemporanei. Parlò di un romanzo «delicatissimo e intensissimo», tramato di «tanti piccolissimi tocchi di una sapienza miracolosa». E Calvino lodò «una levità di sguardo e di notazione che io definisco giapponese».
Il dialogo serrato di Lalla con le montagne è continuato fino agli ultimi anni della sua lunga vita: prima a Courmayeur, da ultimo nell'appartata Vetan, sopra Saint-Pierre, già antico feudo dell'amico Giulio Bollati. Di lassù guardava ipnotizzata il «metafisico» ghiacciaio del Ruitor come un simbolo del passaggio all'Aldilà, nella luce che tutto trasfigura. Come scrive in un racconto datato 1958, quando tornavano a casa gli eremiti si salutavano «con l'intesa - tacita - che avremmo cessato di esistere fino all'anno venturo ... Veramente qualcosa si spegneva - si nascondeva - in noi quando lasciavamo Pralève»." (da Ernesto Ferrero, Tra viole e mirtilli il paradiso di Lalla, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/08/'09)

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