martedì 11 agosto 2009

Ricordati di vivere di Pierre Hadot


"Ricordati di vivere è la massima che Pierre Hadot pone al centro della sua interpretazione dell’opera di Goethe. Quale senso ha formulare tale prescrizione rivolta ad esseri viventi? Il fatto stesso di esistere non comporta forse l’esercizio del vivere? Sarà attiva un’istanza insita nella vita che finisce col negare la vita stessa? Al di là della rilevazione freudiana relativa alle pulsioni di morte, è possibile osservare un’altra forma di inadempienza al principio vitale che consiste nel rinunciare alla possibile intensità dell’esperienza in nome di un mero adattamento alle circostanze abitudinarie del sopravvivere, oppure nel trascurare la pienezza del presente a causa di una memoria opprimente di circostanze passate o della proiezione in vista di possibilità indeterminate. Per dirla con le parole di un personaggio di Ibsen: «Pretendere di vivere è da megalomani». Nella esauriente ricostruzione del filosofo francese, Goethe diventa il paladino, se non l’emblema, di una piena affermazione della vita, intesa - a partire dal Viaggio in Italia - come splendore della natura, identificazione con il cosmo, meraviglia e gioia dell’esistenza, rapporto con gli altri, bellezza dell’arte e rivelazione della sensualità. Hadot ripercorre e analizza i luoghi dell’opera goethiana in cui emerge tale appassionata propensione alla vita, l'inesausto anelito alla felicità che induce Faust a «tendere continuamente a più sublime esistenza». Torna alla mente la conclusione dell’Ethica di Spinoza: «Ma tutte le cose sublimi sono tanto difficili quanto rare». A cospetto del dono gratuitamente ricevuto in sorte, l'uomo non vede il sublime e nega la ricchezza della vita, ignorando quella peculiare facoltà di trascendere il limite, tematizzata da un grande goethiano del ’900, il filosofo e sociologo Georg Simmel.
Saper vivere nel presente, conoscere e godere «la salute del momento», cogliere la bellezza dell’attimo fuggente, scorgerne unsegno dell’eternità, valorizzare
l'esperienza quotidiana senza indulgere alla nostalgia di una idealità irreperibile, compiere ciò che il giorno esige da noi senza procrastinarne l’adempimento, transitare auspicabilmente dall’inquietudine alla serenità, accettare con gratitudine il proprio destino, anche quando si rivela attraverso i capricci del caso. Come si legge nell’Elegia di Marienbad: «Ora per ora / la vita ci è data con gesto amico. / Fai dunque come me, e guarda con la letizia / del saggio l’attimo negli occhi. Non indugiare». Queste regole di vita pongono l’opera di Goethe in una essenziale continuità con la filosofia antica, quella degli esercizi spirituali che Hadot ha sapientemente rispolverato dagli scaffali accademici, in sintonia con il panteismo di Spinoza ma anche come prefigurazione dell’amor fati nietzscheano.
Goethe sembra avvalersi dello sguardo dall’alto, estraneo alla meschinità degli interessi egoistici, in grado di comprendere e trasformare il nostro modo di vivere, pratica esercitata da Epicureo, Lucrezio, Marco Aurelio, dagli stoici, poi dal grande Montaigne che invitava a «saper godere lealmente del proprio essere». Il limite di questa lettura in termini di continuità con la filosofia antica consiste nel trascurare le differenze a favore delle affinità. Goethe non avrebbe mai sottoscritto il discredito delle passioni sostenuto dagli stoici: quando si ama inesplicabilmente non si genera solo turbamento irrazionale ma si afferma la vita anche nel suo aspetto imperscrutabile (termine prediletto dallo stesso Goethe). Persuade di più la continuità con Nietzsche, nel cui nome si chiude il libro. La perenne metamorfosi goethiana, la perpetua avventura di creazione e distruzione, trova espressione affine nella dionisiaca innocenza del divenire dichiarata da Nietzsche, che potrà così amare anche Ananke, la necessità che ci sovrasta. Per entrambi l’origine di tale serenità è l’angoscia, ma lo sguardo dall’alto consente al filosofo dell’amor fati di esprimersi così: «Nessun dolore avrà potuto e potrà indurmi a una falsa testimonianza contro la vita». Analogo sentire fece scrivere a Goethe: «Comunque sia la vita resta un bene», anche quando comporta la dolorosa rottura del fidanzamento con la donna amata. Se vi è un limite che pervade questo libro, peraltro molto dotto e convincente, esso consiste nella falsa alternativa che l’autore pone tra il tradizionale Memento mori e il goethiano Memento vivere, che accoglie ed elabora attivamente la celebre indicazione di Spinoza: «La saggezza è una meditazione della vita, non della morte», domandandosi in forma poetica: «perché dovrei in una vita così breve, / tormentarmi con il suo limite?». I due moniti non andrebbero contrapposti ma considerati complementari, come i filosofi antichi ben sapevano: è proprio la consapevolezza del limite temporale della nostra esistenza, la certezza indeterminata della nostra mortalità a farci apprezzare il valore della vita, il senso e l'urgenza delle sue non trascurabili possibilità." (da Marco Vozza, Goethe, la vita che splendore, "TuttoLibri", "La Stampa", 08/08/'09)

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