sabato 8 agosto 2009

Quando internet non c'era di Angelo Morino


"Quando internet non c'era è un testo trovato nel computer di Angelo Morino qualche giorno dopo la sua morte improvvisa, avvenuta due anni fa. Difficile che coloro che «trafficano» con la letteratura - come lui amava definire il suo mestiere - non si siano imbattuti in qualche libro curato, introdotto, scritto o tradotto da lui. Eterodosso ed eclettico docente universitario di Letteratura Ispanoamericana all'Università di Torino, intellettuale estraneo alle forme elitarie del sapere, Morino era, forse proprio per questo, un sensibile esperto di letteratura tout court. Per decenni è stato consulente dei maggiori editori italiani, fino a prediligere esclusivamente la casa editrice Sellerio che ha inoltre pubblicato la sua opera saggistica e i due testi narrativi precedenti a questo (In viaggio con Junior, 2002 e Rosso taranta, 2006).
Il libro si inaugura con un'avvertenza dal sapore cortazariano, che invita il lettore a scegliere se leggerlo tutto di seguito o intercalato alle note messe in appendice, ma non in corpo minore per sottolineare una sorta di dialogo fra due testi eterogenei e complementari. L'uno, una specie di testamento intellettuale, l'altro una confessione più intima e spregiudicata di un'esistenza vissuta all'ombra di una genialità incline alla sregolatezza. «All'inizio di questa storia», come recita l'incipit, c'è la descrizione di un giovane - lui stesso a vent'anni - come appare in una sgualcita fotografia. Un premonitorio allontanamento da sé mentre consegna al lettore un bilancio della propria vita, qualcosa che ha una fine e che si offre, a differenza dell'autobiografia classica, con una compiutezza di romanzo. La storia è quella di un ragazzo di provincia che trova precocemente conforto alla propria diversità, ingombrante in famiglia e nel contesto sociale in cui vive, nella lettura compulsiva e disordinata di romanzi che non si fa scrupolo a rubare, quando è a corto di denaro, nella cartolibreria del paese. Questo l'unico delitto perpetrato dall'adolescente che qualcuno diceva avesse «una faccia brutale, da giovane assassino», e tuttavia sufficiente per isolarlo fra i coetanei e per farlo guardare con sospetto prima dalla professoressa bigotta che definisce «infetta» la sua passione per i romanzi - quelle letture pericolose che saranno il titolo di uno dei suoi più affascinanti corsi universitari -, poi dalla madre che vede derivare la passione, inizialmente promossa (leggere le sembrava «elegante»), in una scrittura che potrebbe dire quella cosa che lei non vuole sia detta e che le farà bruciare i manoscritti del figlio nella stufa. Questo romantico ritratto dell'artista da giovane, nasce da un disagio nei confronti di una provincia non tanto reale - la Val di Susa -, quanto da «una forma del vivere troppo povera» di fronte alla quale la letteratura rafforza il suo incanto, offrendo altri scorci, consolanti fughe in luoghi remoti. Già da ragazzo la voglia di scrivere qualcosa di scandaloso come Bonjour tristesse, che attiri provocatoriamente l'attenzione. Un'inquietudine che si risolverà solo nell'allontanamento in un altrove a cinquanta chilometri di distanza - Torino - e in altre modalità: di vita da una parte (vivere apertamente la propria omosessualità), e di scrittura dall'altra. Una scrittura saggistica, sì, ma lontana dall'arroccarsi in un gergo per iniziati: «Diventare un Roland Barthes, invece che quella versione maschile di Françoise Sagan». Il libro scandaloso che avrebbe voluto scrivere da ragazzo ce lo ha consegnato postumo, in questo romanzo di formazione che alterna scene di «vita disorganizzata» - come lui ripetutamente definisce l'entrare e uscire dalla terra di nessuno degli eccessi - a scene di iniziazione alla carriera accademica, spesso osteggiato da un'università trincerata nella lontananza dal mondo. Racconta del lavoro di traduttore, iniziato per sbarcare il lunario in una stanzetta di Piazza Vittorio, e continuato per il resto della vita nella consapevolezza che si trattava di un'anticamera della scrittura. Racconta dell'incontro con la narrativa proveniente dall'America Latina, inaugurato, come per altri, da quello spartiacque che è stato García Márquez - del quale divenne l'esclusivo traduttore. Ricorda il suo aggirarsi «fra i confini del Terzo Mondo», che implica, metaforicamente, la curiosità per tutto quanto provenisse dai margini, il recupero di voci ed esperienze non scontate (di qui anche la sua passione per la letteratura mistica), che gli hanno fatto scoprire e diffondere in Italia autori fuori dell'ordinario: basti ricordare scrittrici visionarie come Violette Leduc e Clarice Lispector, e, fra gli ispanoamericani, voci postmoderne come quelle di Manuel Puig e di Roberto Bolaño. Del resto, fuori dell'ordinario, è lui stesso che, ormai in cattedra, dichiara poco canonicamente, di essere rimasto «uno che legge, non uno che studia». Uno che rifuggiva le torri d'avorio dove la sua statura di uomo coltissimo avrebbe potuto isolarlo e che - per l'ammirazione dei suoi studenti - ha sempre continuato a parlare di letteratura come altri parlano di viaggi.
Infine, la narrazione s'intreccia con il resoconto di una ricerca - che oggi Internet renderebbe più agevole ma molto meno avvincente - sulle tracce di una misteriosa scrittrice cilena che Morino rincorre per anni attraversando libri e luoghi fino a Buenos Aires. Appassionata indagine che suggerisce, di rimando, quella che l'autore fa di se stesso e che sembra aver trovato sbocco proprio in questo libro lasciatoci in eredità." (da Vittoria Martinetto, Morino, un delitto in cartolibreria, "TuttoLibri", "La Stampa", 08/08/'09)

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