mercoledì 5 agosto 2009

L'insostenibile leggerezza dell'essere


"Mi sentivo un poco anche io una della notte, quando cominciava la calda estate del 1985, con una figlia piccina impestata che non mi faceva chiudere occhio. E’ così, meno male che c’erano loro, la banda Arbore e dintorni, in onda su Rai Due dal ventinove aprile al quattordici giugno: troppo poco, certo, per un caposaldo dell’etere come quello. Sarebbe dovuta durare anni, Quelli della notte. Meno male che, terminate le trasmissioni, a imperitura (o quasi) memoria, è rimasto il memorabile fascio di tormentoni. A incominciare dalla sigla finale, quel soporifero «materasso» che ti cullava dentro il buio, quando la tele si spegneva. E l’irresistibile parlata di frate Antonio di Scasazza, e il brodo primordiale di cui con piglio didattico dissertava il professor Pazzaglia, buonanima. Quelli della notte (che poi andava in onda verso le undici, un’ora che di questi tempi val bene un aperitivo estivo, ma allora era fonda) non è stata solo una riuscita trasmissione televisiva. È stata ben di più: un modo di fare televisione, certo. Una scelta di vita, soprattutto per noi ch’eravamo cresciuti con Alto Gradimento (accompagnava il ritorno da scuola) e senza «li pecuri» o il «dlin dlon» del supermercato la radio ci sembrava un inutile soprammobile. A Quelli della notte c’era anche una quasi adolescenziale e già solare Maria Grazia Cucinotta, e c’era pure lui, che oggi è il guru del gossip, ma allora faceva l’intellettuale: Roberto D’Agostino. In quella sgarrupata scenografia, attorniato da comparse in improbabile abbigliamento e ancor più improbabili cappelli, il nostro discettava di costumi e letteratura, di tendenze (che ancora non si chiamavano così) e controtendenze (quelle forse già sì). E chissà quali destini editoriali avrebbe avuto L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, che aveva appena inaugurato la collana Fabula dell’editore Adelphi, se non fosse diventato il tormentone dei tormentoni, citato all’infinito dall’esilarante lookologo, che per pronunciare titolo e autore assumeva un piglio serio, quasi ispirato. Molto probabilmente, l’edizione italiana di questo romanzo non avrebbe visto la bellezza di ventotto edizioni. Merito dell’improbabile esegesi televisiva, e anche del formidabile titolo, che pare fatto apposta per essere ripreso. Ma il romanzo che segna la fortuna di Kundera, in Italia e altrove, ha molto altro da raccontare e a distanza di venticinque anni continua a sorprendere, per tante ragioni. E’ intanto una storia scabrosa, più di quadrato che di triangolo, con Tomas che ama Teresa ma la tradisce con Sabina che diventa amica di Teresa e tuttavia ama Franz. Sabina che accoglie Tomas con la bombetta in testa e quella soltanto addosso, è un’immagine che non si dimentica. Così come l’intreccio di fatalità e destino, di eventi fortuiti e decisioni avventate, da cui immancabilmente esce trionfatore il caso. Tomas che fa mente locale a quella assurda serie di coincidenze grazie alla quale conosce Teresa, Teresa che pensa all’esilio e forse scappa, forse gli va incontro. Beethoven e la sua pesantezza e la nostra (presunta) leggerezza: «Tutti noi consideriamo impensabile che l’amore della nostra vita possa essere qualcosa di leggero, qualcosa che non ha peso; riteniamo che il nostro amore sia qualcosa che doveva necessariamente essere; che senza di esso la nostra vita non sarebbe stata la nostra vita. Ci sembra che Beethoven, in persona, torvo e scapigliato, suoni al nostro grande amore il suo Es muss sein!».
La levità e l’ironia di Kundera, insieme al suo talento affabulatorio, venivano allora da un mondo lontanissimo. Di cui sapevamo quasi nulla, solo il tormento. La cortina di ferro era pericolante, ma in piedi. La Cecoslovacchia di Kundera aveva vissuto da non molto la sua tragedia; Gorbaciov si stava giusto in quei mesi affacciando alla storia, c’era nell’aria una specie di nuova rivoluzione, fatta di parole ancora da inventare: glasnost e perestrojka. E di tutto quello che allora non potevamo immaginare, come la caduta del muro di Berlino, di lì a ben poco. Dalle nostre parti, in compenso, visto che ormai le rivoluzioni non si facevano (né tantomeno si fanno) più, salutavamo il presidente Pertini che lasciava la prima carica dello stato con tanta nostalgia per quel suo modo affettuoso, paterno e ironico al tempo stesso, di rappresentarci. Arrivava Francesco Cossiga, con un piglio così diverso nel fare il presidente. Nella remota estate del 1985, quando noi ragazze portavamo in testa nuvole di capelli e addosso vestiti sgargianti e tuttavia sbiaditi epigoni dei mitici anni Settanta, non mancavano le gatte da pelare. Anzi le mucche, perché la prima a dare segni di squilibrio era schiattata nel febbraio di quell’anno. La diagnosi post mortem dichiarò: «nuova progressiva encefalopatia spongiforme dei bovini», che in parole povere era il morbo della mucca pazza. Tutti a posto, del resto, non erano neanche i fratelli Righeira, e noi con loro, a farci rintronare in testa il ritornello dell’estate con scontata puntualità. Lo si sentiva sino alla nausea, allo spasimo, all’orrore, e quell’anno toccò a L’estate sta finendo. Dietro la monotonia del ritmo e il martellamento fonico, la canzone tradiva una nota crepuscolare, quasi malinconica. D’accordo, bisognava proprio cercarcela. Ma in fondo, a ben pensarci, la canzonetta dei Righeira non era così inadeguata a far da sottofondo alla lettura.
L’insostenibile leggerezza dell’essere, con i suoi ritmi lenti ma inesorabili, con la sua ironia che tutto guarisce, con le sue scene di erotismo discinto e un poco scanzonato, con la sua serietà profonda ma niente affatto ingombrante, si prestava a una musica così. E tutto insieme - la banda Arbore e la mucca pazza, i colori (nostrani) e le trasparenze (sovietiche) di allora, le musichette e le parole - sembra ormai così lontano. Forse lo è." (Elena Loewenthal, Leggero è l'essere secondo Kundera, "La Stampa", 05/08/'09)

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