venerdì 28 agosto 2009

La Cina fotocopia il mondo


"Li Chun dirigeva la biblioteca del Beichuan, distrutta dal terremo­to nel maggio del 2008. È arriva­ta a Milano al convegno dell’IFLA — l’Onu dei libri — con il suo abito tradi­zionale per ricevere un premio. La accom­pagnava Li Kaicheng, della biblioteca del­lo Mianzhu. Entrambi parlano solo cinese e queste testimonianze si devono alla cor­tesia del professor Zhang Xiaolin, che ha tradotto dapprima in inglese le loro paro­le. «La mia biblioteca — ricorda Li Chun — è ancora sotto il fango, come migliaia di persone. Appartengo alla minoranza Qiang, uno dei 56 gruppi etnici riconosciu­ti dalla Repubblica Popolare Cinese. Erava­mo 200 mila e 20 mila sono morti».
La sua voce si scioglie con un filo di emozione e ricorda: «I Qiang sono una stirpe antichis­sima, con una storia che risale alla secon­da dinastia — le prime testimonianze so­no del 1760 a.C. — e da loro discendono, tra gli altri, anche i tibetani. Nel terremoto ho perso mio padre e mio fratello maggio­re e sono viva perché mi trovavo nell’atti­gua copisteria, dove ho potuto rifugiarmi sotto un tavolo. Sono rimasta sepolta dalle macerie per 75 ore; una mia collega è stata travolta, un’altra morì dopo l’arrivo dei soc­corsi». Ha il braccio sini­stro offeso ma lo sguar­do sereno. Continua: «Nella mia vita mi sono prima occupata dei bam­bini all’asilo, poi ho in­segnato alle elementari, quindi ho deciso di de­dicarmi alla biblioteca. Al momento del terre­moto avevamo 50 mila volumi, buona parte dei quali erano mano­scritti con trascrizioni di racconti orali, contenenti le storie della mia gente. Gli stampati non costituiscono un problema, perché di essi c’è una copia a Pechino, ma il resto è irrimediabilmente perduto».
Ora, grazie al Prince Claus Fund, una sor­ta di Emergency della cultura (fondato il 6 settembre 1996 per celebrare il settantesi­mo compleanno del principe Claus di Olanda), almeno una parte dei libri del Bei­chuan sarà ricomperata. Anche se, precisa Li Chun, «i resti con il fango rimarranno così come sono e sia la città che la bibliote­ca verranno ricostruite altrove». Questa donna testimonia con il suo abito una fie­rezza antica, una cultura che si perde nel tempo. Prima di salutarci aggiunge le se­guenti parole: «Il terremoto ha lasciato tanto dolore, ma noi ricostruiremo, racco­glieremo ancora libri e storie, daremo vita ad altri manoscritti. Li porteremo, come abbiamo fatto in precedenza, alla gente. Usciranno, come i precedenti, dalla biblio­teca per raggiungere case isolate e zone impervie. Il libro deve inseguire le perso­ne, non viceversa». Che dire? Il viso dolcissimo di Li Chun è l’immagine della Cina, di quanto sta avve­nendo nel Paese al quale ormai occorre guardare con attenzione anche per le bi­blioteche. Sempre a Milano, per il conve­gno Ifla, è arrivato Ben Gu, uno dei vicedi­rettori della Nazionale di Pechino. In una chiavetta aveva i dati relativi al 2006. Parla­no da soli, è inutile aggiungere aggettivi: in Cina vi sono 2.777 biblioteche pubbli­che che hanno superato i 400 milioni di volumi, 3.901 sono le universitarie; istituti di ricerca, aziende e di­partimenti governativi raggiungono le 10 mila, l’esercito ne ha 94 che corrispondono ad altret­tante scuole militari. Le sindacali sono 26 mila, le ospedaliere 19 mila, quelle scolastiche 130 mila e ad esse vanno ag­giunte le raccolte del partito, delle quali non ci sono dati. Nel 1949 le biblioteche cinesi erano 55. Tutto questo è avvenuto improvvisamen­te, giacché la Nazionale di Pechino ha un secolo ma le altre sono state fondate in buona parte nell’ultimo ventennio. E il fe­nomeno — come sottolinea Mauro Guerri­ni, presidente italiano Ifla e sodale di Ben Gu — «è in forte espansione».
Sono stati aperti corsi per bibliotecari e si è creata una bibliografia nazionale a cominciare dal 1987, la stessa che dal 1994 è online. Due dati che raffrontati ai nostri fanno im­pressione: in Italia essa nacque nel 1888, e venne rifondata nel 1958, negli Usa nel 1830. «La Cina — dichiara Guerrini — sta costituendo importanti biblioteche carta­cee utilizzando e riproducendo per scopo interno le principali pubblicazioni di carat­tere letterario, economico e scientifico del mondo». Parole prudenti che si possono tradurre così: tutte le opere più importanti sono raccolte e poi digitalizzate in Cina, dove tra non molto ci sarà la più incredibi­le raccolta di dati culturali che mai sia sta­ta tentata sul nostro pianeta. Qualche esempio? Dalle grandi storie dell’Occiden­te ai classici, dalle raccolte di leggi ai saggi strategici contemporanei — comperati, tradotti e messi online — via via fino alla letteratura e ai testi religiosi. Immaginate­vi in qualche chiavetta la Storia dei Papi di von Pastor o l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, i Rerum Italicarum Scripto­res di Muratori o i testi greci e latini del­la Teubner. Non spetta a noi trarre conclusioni. Ma forse è il caso di aggiungere in mar­gine che la Cina non rispetta piena­mente le nostre norme sul diritto d’autore e il dibattito in questi giorni crea­to da Google, che non lo gradisce, può tra­sformarsi in una bomba che non sappia­mo quando esploderà. Insomma, la retri­buzione del lavoro intellettuale conoscerà giorni sempre più difficili, anzi si avvia ver­so la zona delle cifre irrisorie. È forse agli sgoccioli l’epoca degli scrittori miliardari; e, se questi lo diventeranno, non sarà per i diritti d’autore. Le ricadute? Difficile preve­dere cosa comporta l’abbassamento, o il crollo, dei pagamenti del lavoro intellettua­le, ma non occorrono sforzi per pensare al­le riduzioni che colpiranno i compensi de­gli insegnanti e di coloro che fanno ricerca lontano da scopi industriali. Gli intellettua­li ben remunerati, liberi e critici del pote­re, possono insomma considerarsi una pa­rentesi. Del passato." (da Armando Torno, La Cina fotocopia il mondo, "Corriere della Sera", 28/08/'09)

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