venerdì 28 agosto 2009

Il male minore di Eyal Weizman


"Eyal Weizman è un architetto israeliano. Insegna alla University of London e ha scritto un saggio, Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori), che ha fatto molto discutere, dedicato alla costruzione del Muro che separa Israele dai Territori palestinesi. In un piccolo librino, edito invece da poco da Nottetempo e intitolato Il male minore, Weizman ha invece posto un problema di grande attualità di questi tempi, la cui formulazione è: se vi trovate di fronte a due mali, è vostro dovere optare per il minore.
La questione del «male minore» l’ha sollevata in modo critico per la prima volta un’ebrea migrata in America per sfuggire al nazismo, Hannah Arendt, in una conferenza del 1964, dedicata a «La responsabilità personale sotto la dittatura». Pochi anni prima la filosofa tedesca s’era interrogata, nel corso del processo contro Eichmann, grande organizzatore della deportazione, sulle ragioni della cooperazione offerta ai nazisti dai Consigli ebraici nelle nazioni occupate, atto rimosso da molti, e subito contestato alla Arendt: ebrei eminenti avevano collaborato con i massacratori con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, e per questo avevano lasciato che moltissimi di loro venissero deportati e gasati.
Il male minore, appunto, argomento che circola anche nelle affermazioni del criminale nazista nel corso del processo: siamo scesi a patti col diavolo senza vendergli l’anima. Oppure: noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime.
Come ci ricorda Hannah Arendt, chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta che sta scegliendo il male. Weizman sottolinea come nella nostra post-utopica cultura politica contemporanea il termine «male minore» è diventato oggi un fatto quasi naturale, e viene invocato in contesti incredibilmente diversi tra loro: dalla morale individuale al diritto internazionale, dalle economie della violenza nel contesto della «guerra al terrore» agli attivisti umanitari dei cosiddetti «diritti umani», portati a destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza - parola che sembra aver preso il posto precedentemente riservato al termine bene.
Sono spesso proprio i totalitarismi a usare l’argomento del male minore, dice l’architetto israeliano, che cita un altro scritto della Arendt, Le uova alzano la voce, dove viene ricordato il detto di Stalin, il solo contributo originale del capo sovietico alla dottrina marxista: «Non puoi rompere le uova senza fare una frittata». Ovvero, che non si può edificare il regime della vera giustizia tra gli uomini senza grandi sacrifici di vite umane. Una convinzione che ha portato anche da noi, in Italia, negli anni Settanta, diversi miei coetanei ad accettare il principio dell’omicidio politico come strumento rivoluzionario - e a sostenerlo anche oggi come un portato inevitabile dell’epoca.
Mary McCarthy, la scrittrice amica della Arendt, ha smascherato la fallacia del male minore: «Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice “Uccidi il tuo amico o io uccido te”, ti sta semplicemente tentando». Quando nient’altro è possibile, scrive Weizman, «fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano».
Quando la filosofa tedesca aveva articolato questo tema, non era ancora operante la razionalità dei computer, la logica del calcolo, che ha portato alle estreme conseguenze la questione nel capitalismo finanziario: introdurre il modello economico nei giudizi etici. Il calcolo e la misurazione dei beni e dei mali considerati come algoritmi - trend statistici delle scienze sociali, o aspetti di un problema computazionale - riducono di fatto la responsabilità personale e di giudizio.
Weizman ci ricorda che quando le questioni vengono pensate in termini economici ed espresse in numeri, «esse possono essere cambiate e sviate infinitamente». L’architetto ripercorre nel suo saggio la storia del «male minore» nel pensiero occidentale, attraverso Agostino che rompe con l’assolutismo del manicheismo (meglio le prostitute dell’adulterio, meglio uccidere un aggressore prima che questi uccida un passante innocente). Il male minore come prevenzione è un concetto che ha fatto molta strada presso di noi passando anche per il marxismo e i suoi interrogativi: il cambiamento deve comportare la riduzione o l’intensificazione della sofferenza?
La politique du pire ha lastricato i sentieri di Utopia negli ultimi settant’anni, sino ad arrivare agli ex maoisti francesi passati alla causa dei Diritti Umani degli anni Novanta, o alla «guerra al terrore» di Guantanamo, tutti esempi in cui il calcolo costi e benefici si modella non in relazione al male che si produce ma a quello che si previene. Qual è dunque l’antidoto a questa politica della menzogna? La responsabilità, scrive la Arendt, che è sempre un fatto individuale e non collettivo. Qualcosa di assolutamente soggettivo che invece i regimi totalitari, e quelli che aspirano a diventarlo, cercano di negare annacquando tutto nel «collettivo» dei sondaggi e delle opinioni mutevoli. L’autenticità dell’atteggiamento soggettivo, dice la filosofa, «si può misurare solo dalla caparbietà nell’affrontare eventuali sofferenze». Non ci sono dunque regole generali, ma a tutti verrà prima o poi chiesto, come a Eichmann: perché hai obbedito? Perché hai dato il tuo sostegno? Lì è il momento di verità di ciascuno, per quanto sarebbe sempre meglio non arrivarci. Per questo bisogna pur fare qualcosa affinché la logica del «male minore» non trionfi oggi, qui tra noi." (da Marco Belpoliti, E liberaci dal male minore, "La Stampa", 28/08/'09)

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