lunedì 17 agosto 2009

I figli della mezzanotte di Salman Rushdie


"«Io sono nato nella città di Bombay ... tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l'ora? Anche l'ora è importante. Beh, diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi. Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai, le lancette dell'orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro; nell'istante preciso in cui l'India pervenne all'indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. Ci fu chi boccheggiò. E fuori della finestra, folle e fuochi d'artificio. Pochi secondi dopo, mio padre si ruppe un alluce; ma questo incidente era una bazzecola se paragonato a quel che era accaduto a me in quel tenebroso momento: grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti, io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese».
Così comincia I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, un libro che mi ha sempre fatto venire un'invidia enorme. 15 agosto 1947. Mi sarebbe piaciuto essere nato in quella stessa data. Quella notte, quella mezzanotte fatidica deve essere stato un momento straordinario. Un immenso continente, grande circa otto volte la Francia, si dichiarava indipendente dalla Gran Bretagna e si proclamava democrazia, la più grande del mondo di allora (e di oggi).
Perché avrei voluto esserci? Perché questa era l'opera di uno degli uomini più strani e geniali che l'umanità del secolo ventesimo abbia avuto, Gandhi. Un avvocato indiano cresciuto in Sudafrica e poi a Londra e trovatosi a inventare e capeggiare la più grande rivolta non violenta della storia, in barba alle teorie dei più efferati nazionalismi, in barba alle ideologie sanguinarie leniniste e alle teorie imperialiste anglo-americane. L'India era diventata una nazione indipendente, un paese di stati differenti, di centinaia di migliaia di culti diversi, un paese hindù, ma anche musulmano come lo erano i genitori di Salman Rushdie nati in Kashmir, ma anche cristiano, zoroastriano, nestoriano, giainista, buddista, un paese dove le lingue parlate sono migliaia e le divinità adorate milioni. Eppure era anche un paese che aveva espresso una straordinaria classe dirigente.
Se Gandhi era il guru, l'artista di una coesione sociale dal basso che nessuna "avanguardia" leninista avrebbe mai potuto concepire, accanto a lui si muoveva una classe dirigente colta, intelligente, preparata, ma soprattutto, incredibile a dirsi: laica. Nell'ashram di Tagore, un poeta sommo, uno scrittore, un pensatore, un ponte tra Oriente e Occidente, si erano formati personaggi come Jawaral Nerhu, il primo presidente dell'India indipendente, a cui stava a cuore un futuro dell'India al di là del bramanismo delle caste e al di là delle divisioni di religione. La democrazia indiana fin dal primo momento si era definita "secolarizzata", "anti-comunitaria" nel senso di essere contro un'idea teologica, fondamentalista dello stato. Nerhu fu un grande artefice di questa secolarizzazione ed ebbe una visione modernissima di un continente di differenze, unito da un senso di appartenenza che era appartenere alla cultura hindù, non a una religione. Eppure l'India non rinunciava ad essere la "madre India", la grande India in cui si mescolavano culture, si elaboravano visioni del mondo lontanissime da quelle occidentali eppure alla radice di queste: se è vero che i più grandi grecisti hanno individuato nel pantheon greco le tracce di una classificazione del mondo che veniva dal mondo indiano.
Avrei voluto essere uno di quei Figli della mezzanotte, di quei bambini nati in quella fatidica data. Nasceva un mondo, nasceva in mille contraddizioni, ma era nuovo, nuovo anche rispetto al secolo dei comunismi, dei nazismi e dei fascismi. E nasceva con la dignità di un continente che voltava le spalle a un ormai piccolo paese colonizzatore che aveva cercato d'imbrigliare l'India nelle proprie categorie, ma poi quelle stesse categorie riduttive avevano fatto esplodere il suo impero. Rushdie dice che quella notte a mezzanotte sono nati bambini dotati di poteri strani, magici ma anche assurdi: «Insomma tra i bambini della mezzanotte c'erano infanti capaci di trasformarsi, di volare, di profetizzare, di compiere incantesimi. La realtà può avere contenuti metaforici. Ma questo non la rende meno reale. Nacquero mille e uno bambini; ci furono mille e una possibilità che in precedenza non si erano mai presentate contemporaneamente in un unico luogo; e ci furono mille e uno vicoli ciechi. I bambini della mezzanotte possono essere molte cose a seconda del vostro punto di vista: si può considerarli l'ultimo sprazzo di tutto ciò che c'era di antiquato e di retrogrado nella nostra nazione infestata da miti, e ritenere la loro disfatta totalmente auspicabile nel contesto di una modernizzata economia novecentesca; o la vera speranza di libertà, ora definitivamente spenta; ma non devono mai diventare la creazione bizzarra di una mente sconnessa e malata».
Avrei voluto essere testimone (ma come, appena nato?) della prima riunione del Congresso, quella a cui partecipò Gandhi, piena di entusiasmo, ma anche strana, per quanto ci racconta V. S. Naipaul. Due congressisti fecero i propri bisogni nel proprio scranno, e Gandhi che non era avvezzo alle usanze indiane in questo campo rimase scandalizzato, sconvolto. L'India era, è anche questo, un paese immenso pieno di assurde contraddizioni, di miseria e nobiltà, di modernità e caste, di libertà estreme e costumi repressivi. Eppure l'India come democrazia c'è ancora oggi ed è un paese a cui non si può non guardare con speranza, quella speranza che Rushdie teme venga spenta, ma che lui stesso continua ad alimentare nei suoi romanzi e nell'opera di sprone e dialogo che conduce con la sua India. Per non parlare della sua testimonianza di vita: uno scrittore di origine e cultura musulmana, imbevuto di Corano che si permette di "secolarizzare" l'Islam e per questo viene colpito dalla più pericolosa delle fatwe. Solo un'indiano, imbevuto della grandissima cultura dell'Oriente ma anche dell'ironia di Bollywood (e i versetti satanici sono puro Bollywood!) lo poteva fare: un indiano nato a mezzanotte del 1947.
L'India dà speranza: molto più della Cina, che non è certamente una democrazia e che soprattutto non è un paese pluralista, ma è ancora il Celeste Impero, staccato dal mondo e superiore ad esso. L'India invece è stata sconfitta dal colonialismo e poi l'ha sconfitto e per questo l'inglese come lingua e civiltà le è servito, per questo ha sviluppato un'"interfaccia" con il resto del mondo che le consente di comunicare, di raccontare la propria differenza, di avere la più grande letteratura in inglese del mondo contemporaneo.
Vorrei essere nato in India per non essere italiano, parte di un paese che è disposto a diventare servile nei confronti della Cina, ma che non si accorge da ben sei governi che la presidente (a tutti gli effetti) della più grande democrazia del mondo non è di origine italiana, è addirittura italiana. Ma in un paese come il nostro, che è razzista perché disprezza i propri figli andati all'estero, allora Sonia Gandhi altro non è che una poveraccia figlia di un piccolo industriale della periferia di Torino. Vorrei essere nato in quella mezzanotte per essere oggi a combattere al fianco di coloro che da indiani si preoccupano delle derive fondamentaliste dell'induismo, della devastazione ambientale, delle mire imperialiste del proprio paese. Ma lo fanno perché questo è un paese nuovo davvero, un paese che nell'orizzonte vecchio della politica mondiale rappresenta un luogo differente, complesso, ricco di futuro, un luogo complicato certo, ma dove non dimentichiamoci che accanto a Gandhi la notte dell'indipendenza c'era il grande Ambedkar, il rappresentante dei dalit, dei paria, paria lui stesso, anche se diplomato in una prestigiosa università inglese.
E anche questa lotta per l'abolizione delle caste è andata avanti, continua a essere una delle anime del paese. M'illudo? Sono ottimista perché l'India è lontana? Forse, ma se Amartya Sen, Salman Rushdie e lo stesso V. S. Naipaul nutrono l'idea che l'India è un paese che potrebbe farcela a diventare una migliore e più giusta democrazia, se pensano che potrebbe avere un ruolo determinante per gli equilibri in Oriente e in Medio Oriente, e per evitare il tanto stupidamente strombazzato scontro di civiltà, beh allora, con tutta la coscienza che nasce per aver visto le bidonville di Calcutta, di Mumbay e di Delhi, beh allora viene anche a me da sperare. Soprattutto perché questo è un paese in cui la cultura intesa come radice profondissima dell'identità ha un peso enorme nella vita di tutti, dalla povera gente alla classe media, ai ricchi zoroastriani al potere come gli industriali Tata. Sì, mi sarebbe piaciuto essere inondato dalle polveri di colore che la gente si lancia addosso nelle grandi feste indiane, nelle "holi", come accadde quella notte per fare festa e dichiarare l'India il paese del futuro." (da Franco La Cecla, Con Gandhi nella gioia della vittoria, "Il Sole 24 Ore", 15/08/'09)

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