venerdì 21 agosto 2009

10 dicembre 1198. Sul tappeto volante con Averroè


"Mi chiamo Yakub Ibn Mansur, sono le 19 del 10 dicembre 1198 dell'era cristiana. Mi trovo a Marrakesh la rossa, la più bella e più grande città del nostro regno. Una pioggia torrenziale si è abbattuta sulla città, come ad annunciare la fine di un'epoca. Stamattina, prima della preghiera del mezzogiorno, è accaduta una cosa terribile. Il maestro, di cui sono stato per quarant'anni fedele servitore, è stato richiamato da Dio onnipotente e misericordioso. Ora nessuno sa che cosa succederà, ma certo qualcosa di grave si abbatterà sulla terra dell'Islam. Erano giorni che il mio maestro - che fu filosofo, giurista e medico, che fu il grande cadi di Siviglia, chiamato "il filosofo di Al Andalus" - si sentiva male. Ma avendo vissuto con lui per così tanto tempo non potevo immaginare la sua morte. Avevamo superato insieme tante prove; lui aveva conosciuto l'onore e la gloria, la paura e l'esilio, lui che era stato chiamato da tutti gli emiri e i principi di Al Andalus, lui che era stato amico degli ebrei e dei cristiani, ma fu combattuto proprio dai suoi fratelli musulmani. Qualche settimana fa, mentre rivedevamo insieme il commento al Trattato dell'anima di Aristotele, mi narrò di uno strano sogno che aveva fatto.
Caro Yakub - mi disse - il mio soggiorno sulla terra sta per concludersi, Dio mi ha richiamato. Mi trovavo su un fiume, seduto su un fiore di loto. Il fiume sfociava in un sentiero, che era chiamato «sentiero dei quaranta giorni», e sai che per noi fedeli dell'Islam, dal momento in cui Dio richiama, devono passare quaranta giorni perché l'anima possa incontrarsi con i due angeli Minkar e Munkar, guardiani del Paradiso. Io mi sentivo stanco, sfinito, ma per fortuna non ero solo, anche tu eri lì con me. Mi resi conto allora che l'anima ha bisogno anche del riposo. Il tuo sostegno era impagabile, e la tua presenza era importante anche perché avresti dovuto in seguito raccontare laggiù sulla Terra tutto ciò che sarebbe accaduto lì.
Mentre stavo per addormentarmi udii uno strano suono, una specie di musica celeste: annunciava l'arrivo dei due angeli, per sottopormi a quell'ultima prova. Mi dissero: «Tu sai che è scritto nel nobile Corano: "Chi avrà fatto un atomo di bene lo vedrà, chi avrà fatto un atomo di male lo vedrà"». I due angeli si consultarono. La lista delle opere buone era infinita. L'angelo Minkar mi disse: «So che hai voluto far progredire l'umanità con i tuoi pensieri e i tuoi scritti. Sei stato un ponte verso la conoscenza. Ma gli uomini spesso non vedono i ponti, sono anzi tentati di distruggerli. Perciò ti hanno mandato in esilio e hanno bruciato i tuoi libri. Ma ricorda: si possono bruciare quanti libri si vuole, ma le idee, l'amore per la giustizia e per la conoscenza nessuno li può distruggere».
Munkar, che sembrava infastidito dalla mia aura di sapienza, decise di mettermi alla prova. «O tu sapiente dei mondi, non metto in dubbio ciò che hai fatto. Ma voglio avene la conferma». Munkar prese due chiavi e mi disse: «Scegline una. Se la tua purezza e la tua sete di conoscenza sono autentiche, una delle due chiavi ti aprirà la porta del regno del mondo sul mondo. Lì vedrai una folla di persone che ti accoglierà in un giardino meraviglioso. Vedrai due rose, una bianca e una rosata, una di Isfahan e l'altra di Zagora, nei pressi di Marrakesh. Ne aspirerai l'incantevole profumo e allora qualcosa accadrà». Senza pensarci due volte presi una delle due chiavi, mi avvicinai alla porta di smeraldo e al primo giro di chiave la porta si aprì. Vidi un'immensa corte circondata da un giardino circolare: appena entrai, una folla mi applaudì. Era strano, con essi io parlavo la mia lingua, l'arabo, e loro - filosofi di lingue diverse: tedesco, latino, hindi, cinese e molte altre - mi comprendevano e tutti si comprendevano tra loro. Le lingue si erano liberate dai loro codici e la grammatica era unica, universale: tutti ci capivamo. Proprio quel giorno, sapendo del mio arrivo, avevano deciso di festeggiare. Filosofi, pittori, scienziati, architetti e tutti i generi di artisti e intellettuali, le migliori menti dell'umanità, si erano riuniti.
Un angelo mi fece da guida e mi presentò gli ospiti. Fui molto incuriosito da un personaggio seduto in un angolo che tracciava disegni e calcoli su un foglio. Mi spiegarono che si trattava di Leonardo da Vinci, che stava progettando un ampliamento del palazzo e cercava d'inventare una macchina per salvare la Terra. Un po' più a destra, due tedeschi erano quasi sul punto di venire alle mani. Erano Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger. Giorni prima, mi disse l'angelo, si erano azzuffati a motivo di una filosofa, Hannah Arendt. Seduto su una panca, c'era un uomo dall'aria mite che stava leggendo proprio alcune delle mie opere. Mi avvicinò e facemmo amicizia: in pochi attimi eravamo divenuti indispensabili l'uno all'altro. Era san Tommaso d'Aquino. Era così felice di incontrami che m'invitò dicendomi che mi avrebbe mostrato una sorpresa. Mi portò in una stanza dove vidi un giovane di nome Raffaello che stava dipingendo il mio ritratto. La mia guida mi ricordò che avrei dovuto aspirare il profumo delle due rose. Mi avvicinai e ne aspirai il profumo. Immediatamente la mia anima fu rivestita di un nuovo corpo: mi trovavo in mezzo al giardino sdraiato su un tappeto di Shiraz: era con me il mio fedele servitore, Yakub. Il tappeto si alzò e uscì dall'eternità per entrare nel tempo dei mondi e rivisitare la Terra. Che cosa era accaduto e che cosa accadrà ora? Gli angeli della porta di smeraldo mi avevano chiesto un nuovo commento. In questo nuovo viaggio il tempo si era dilatato. Mi ritrovavo a rivivere il mio processo a Cordoba e gli incubi che non mi avevano mai abbandonato: i miei libri bruciati sulla piazza pubblica, le denunce che mi piovevano addosso semplicemente perché avevo affermato che ragione e fede non sono antitetiche ma possono essere complementari, l'una sostiene l'altra come la ninfea che si espande sull'acqua del fiume. I più duri fra i teologi mi minacciavano perché ero consigliere dei principi, ma io ricordai loro una frase di Platone nella Repubblica: «Le cose andranno male in politica finché i filosofi non diverranno re nella città, o finché questi ultimi non divengano seri filosofi». Era una strana epoca quella: i miei commenti facevano tremare di più i religiosi che i potenti. Perciò fui mandato in esilio a Lucena, vicino Granada, per dieci anni. Ruotando il tappeto di un giro completo raggiunsi un altro spazio-tempo. Stavo quasi cadendo dal tappeto quando una donna velata mi spinse per impedirmi di cadere e mi disse: «Guarda laggiù!». Vidi una cosa atroce. Una folla guardava una donna che sarebbe stata abbattuta a fucilate come un cane, al grido di «Dio è grande! Dio è grande!». Più oltre, vidi folle di ragazzi e ragazze che gridavano «Libertà!»; poi vidi altre terre che ardevano sotto un calore innaturale, e dove si combattevano guerre senza fine. Questo era il paesaggio della Terra, e confermava ciò che avevo scritto 900 anni prima di allora: «Hanno di fatto precipitato la gente nell'odio, la mutua esecrazione delle guerre, hanno strappato a pezzi la Rivelazione, e hanno diviso tra loro gli uomini». Dinanzi allo spettacolo di quella devastazione, cercai di parlare con alcuni dei sovrani di quel tempo per mostrar loro che la fede non può essere un campo di battaglia: la fede è altro, è come il profumo di una rosa, rende la vita più bella e sopportabile. Ma non vollero ascoltarmi. In un istante ero tornato alla porta di smeraldo, e lì accorsero i miei amici a chiedermi che cosa avessi visto e udito sulla terra del futuro. «La terra sta molto male», dissi. Raffaello vide il mio volto intristito: «Ascolta, Averroè. Vedrai, la bellezza salverà la Terra. Leonardo inventerà una macchina per salvarla. E io dipingerò ancora la bellezza». Sì, ma voi non sapete, dissi. Gli esseri umani, laggiù, bruciando tutto, hanno distrutto anche le idee. Non sanno più nemmeno che cosa significhi amare il prossimo, guardare un campo di fiori. Hannah Arendt mi si avvicinò e mi disse: è per mostrare questo che ho scritto a proposito della banalità del male. Hai scritto bene, le dissi, so che anche la tua comunità ha vissuto un'immensa tragedia. Ma il problema è che lì non c'è più nemmeno il problema dell'esistenza del male, c'è il regno di una violenza ovunque diffusa: perché il male ci obbliga ad andare verso il bene per superarlo. Hai ragione, rispose lei, il mondo ha bisogno di nuove idee. Perciò gli esseri umani devono riconciliarsi con se stessi, la loro anima con il loro corpo, e l'eternità con il mondo.
Io, Yakub al Mansur, capii in quel giorno del 1198 che l'eternità e la ragione sono le due luci che illuminano il sentiero dell'umanità. Se manca una delle due, essa rischia di sprofondare nell'oscurità più buia." (da Khaled Fouad Allam, 10 dicembre 1198. Sul tappeto volante con Averroè, "Il Sole 24 Ore, 21/08/'09)

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