sabato 26 aprile 2008

Orhan Pamuk: per chi scriviamo noi romanzieri


"Per chi scrivi? Negli ultimi trent'anni o giù di lì - fin da quando ho cominciato a fare lo scrittore - questa è stata la domanda che mi sono sentito rivolgere più di frequente, sia dai lettori che dai giornalsiti. Le ragioni variano a seconda del momento e del luogo, e a seconda del momento e del luogo varia anche il livello della loro curiosità, ma tutti fanno questa domanda con lo stesso tono di voce, sospettoso e sussiegoso. A metà degli anni Settanta, quando decisi per la prima volta di diventare romanziere, questa domanda rispecchiava il grossolano concetto, largamente diffuso, che l'arte e la letteratura fossero dei lussi che un Paese povero non occidentale, che si sforzava di entrare nell'era moderna, difficilmente poteva permettersi. C'era anche chi suggeriva che una persona 'istruita e colta come te' avrebbe potuto rendere un miglior servizio alla nazione facendo il medico e combattendo le epidemie o facendo l'ingegnere e costruendo ponti (Jean-Paul Sartre diede credito a questa linea di pensiero all'inizio degli anni Settanta, quando disse che se fosse stato un intellettuale del Biafra non si sarebbe messo a scrivere romanzi). Negli anni successivi, quelli che mi facevano la fatidica domanda erano più interessati ad appurare a quale settore della società speravo di rivolgermi, quali persone secondo me avrebbero letto e ammirato le mie opere. Sapevo che si trattava di una domanda insidiosa, perché se non avessi risposto, 'Scrivo per i membri più poveri e oppressi della società!', mi avrebbero accusato di difendere gli interessi dei proprietari terrieri e della borghesia (anche se questo mi faceva pensare che qualsiasi scrittore sincero e generoso che sostenesse di scrivere per i contadini, gli operai e gli indigenti, scriveva per gente che sapeva a malapena leggere). Negli anni Settanta, quando mia madre mi chiedeva per chi scrivevo, il tono preoccupato e addolorato della sua voce mi diceva che in realtà mi stava chiedendo: 'Come pensi di riuscire a mantenerti?'. E quando gli amici mi chiedevano per chi scrivevo, quella punta di scherno nella loro voce bastava a farmi capire che nessuno sarebbe mai stato interessato a leggere un libro scritto da uno come me. Trent'anni dopo, questa domanda me la sento porre più spesso che mai. Stavolta ha a che fare più che altro con il fatto che i miei romanzi sono stati tradotti in oltre 55 lingue. In particolare negli ultimi dieci anni, i miei sempre più numerosi intervistatori sembrano preoccupati che io possa fraintendere le loro parole, perciò di solito aggiungono: 'Lei scrive in turco, quindi scrive soltanto per i turchi, oppure adesso pensa anche al più vasto pubblico che riesce a raggiungere attraverso le traduzioni dei suoi libri?'. Sia che la domanda mi venga rivolta in Turchia sia che mi venga rivolta all'estero, è sempre accompagnata da quello stesso sorriso sospettoso e sussiegoso, che mi spinge a concludere che, se voglio che le mie opere siano accettate come vere e autentiche, la risposta che devo dare è: 'Scrivo solo per i turchi'. Prima di esaminare la domanda in sé e per sé - che non è né sincera né umana - dobbiamo rammentare che l'ascesa del romanzo è coincisa con la nascita dello Stato-nazione. Quando sono stati scritti i grandi romanzi del XIX secolo, l'arte del romanzo era, in tutti i sensi, un'arte nazionale. Dickens, Dostoevskij e Tolstoj scrivevano per una classe media emergente, che nei libri del proprio rispettivo autore nazionale poteva riconoscere ogni città, ogni strada, ogni casa, ogni stanza e ogni sedia; poteva indulgere agli stessi piaceri cui indulgeva nel mondo reale e discutere delle stesse idee. Nel XIX secolo i romanzi di autori importanti uscivano innanzitutto sui supplementi dedicati all'arte e alla cultura dei quotidiani nazionali, perché i loro autori parlavano alla nazione. Nelle loro voci narrative possiamo avvertire il malessere del patriota impegnato che ha a cuore soprattutto la prosperità del suo Paese. Alla fine del XIX secolo, leggere e scrivere romanzi significava partecipare a un dibattito nazionale su questioni di rilievo nazionale. Oggi, però, scrivere romanzi ha un significato completamente differente, così come ha un significato differente leggere romanzi. Il primo cambiamento avvenne nella prima metà del XX secolo, quando il fidanzamento tra il romanzo letterario e il modernismo fece ascendere questa forma narrativa allo status di una grande arte. Moltissimo hanno pesato anche i cambiamenti a cui abbiamo assistito negli ultimi trent'anni nel campo delle comunicazioni: nell'era dei media globali, gli autori letterari non sono più individui che parlano innanzitutto e unicamente alle classi medie del loro Paese di appartenenza, ma sono individui capaci di parlare, e parlare in modo immediato, a lettori di 'romanzi letterari' di ogni parte del mondo. Oggi gli appassionati di letteratura aspettano il nuovo libro di Garcìa Marquez, Coetzee o Paul Auster come i loro predecessori aspettavano il nuovo di Dickens: come l'ultima novità. Il pubblico mondiale degli scrittori di questa generazione è molto più vasto del pubblico che i loro libri raggiungono nei rispettivi Paesi di origine. Se generalizziamo la domanda - 'Per chi scrivono gli scrittori?' - potremmo dire che scrivono per il loro lettore ideale, per le persone amate, per se stessi o per nessuno. Questa è la verità, ma non tutta la verità. Perché gli scrittori odierni scrivono anche per coloro che li leggono. Dal che si può dedurre che gli scrittori odierni scrivono progressivamente sempre meno per le proprie maggioranze nazionali (che non li leggono) e sempre più per la minoranza di appassionati di letteratura di tutto il mondo che li leggono. Eccoci al punto: le domande punzecchianti, e i sospetti sulle reali intenzioni di quesi scrittori, riflettono un disagio nei confronti di questo nuovo ordine culturale che si è affermato negli ultimi trent'anni. A trovare maggiormente spiacevole tutto ciò sono gli opinionisti e le istituzioni culturali delle nazioni non occidentali. Incerti come sono del loro posto nel mondo, maldisposti come sono a discutere delle crisi nazionali attuali o delle pagine nere della loro storia in contesti internazionali, questi gruppi sono inevitabilmente diffidenti nei confronti di quei romanzieri che guardano la storia e il nazionalismo in un'ottica non nazionalista. Dal loro punto di vista, un romanziere che non scrive per un pubblico nazionale sta esoticizzando il suo Paese per un 'consumo straniero' e sta inventando problemi che non hanno fondamento nella realtà. A Occidente vige un sospetto parallelo, poiché molti lettori sono dell'opinione che le letterature locali dovrebbero rimanere locali, pure e fedeli alle loro radici nazionali; la loro paura inconfessata è che uno scrittore che diventi uno scrittore 'mondiale', attingendo la sua ispirazione da tradizioni esterne alla sua cultura, finisca col perdere la sua autenticità. A provare con maggior forza questa paura è un tipo di lettore che vuole aprire un libro e entrare in un Paese straniero tagliato fuori dal mondo, che vuole osservare le beghe interne di quel Paese così come assisterebbe a un litigio tra vicini nell'appartamento accanto. Se uno scrittore si rivolge a un pubblico composto anche da lettori di altre culture, che parlano altre lingue, allora questa fantasia viene meno. Tutti gli scrittori hanno un profondo desiderio di essere autentici ed è per questo che adoro ancora - perfino dopo tutti questi anni - quando mi chiedono per chi scrivo. Ma se l'autenticità di uno scrittore dipende dalla sua capacità di prender parte al mondo in cui vive, dipende anche, nella stessa misura, dalla sua capacità di capire la mutevolezza del proprio posto in quel mondo. Non esiste un lettore ideale libero da proibizioni sociali e miti nazionali, proprio come non esiste un romanziere ideale. Ma è il lettore ideale - che sia nazionale o internazionale - quello per il quale tutti i romanzieri scrivono, prima creandolo con l'immaginazione e poi scrivendo libri con in mente lui." (da Orhan Pamuk, Lo scrittore alla ricerca del lettore perfetto, "La Repubblica", 26/04/'08)

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